Ok, stavolta la presentazione è corta. Ricordate la storia che scrivevo e poi ho smesso? Si ecco quella. Non aveva un cazzo di basi quindi mi era difficile seguire un filo logico, dunque ho sfruttato un'altra idea. Son ripartito da capo e ho scritto una cosa completamente diversa (non centra niente con l'altra storia) e, a mio parere, decisamente più bella. Ci ho messo mesi per finire di scrivere tutti i dettagli che mi servivano per la storia è mo è per buona parte pronta. Pronta da scrivere. E quindi ho incominciato oggi a scrivere quello che può essere il preludio. Corretto e tutto con word, ma se è scappato qualcosa avvisatemi. Spero che vi piaccia anche se, con solo questo, ci capirete poco o niente xD. La vera storia inizia tra poco! Lasciatemela scrivere però
. Meno male che doveva essere corta la presentazione.
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Cap. 1
Un bruciore improvviso. Un’orrenda sensazione che parte dalle narici, dalla bocca e percorre tutto il corpo. Un fuoco che arde nei polmoni che, per la prima volta, iniziano a fare il loro dovere. Gli occhi ancora chiusi, troppo impauriti da quel nuovo mondo per osare una sbirciata. Le piccole mani contratte che si agitano nell’aria. Poi, finalmente, il pianto del bambino. Un urlo di disperazione. Per quanto incomprensibili, chiunque capisce quelle parole: “Voglio tornare indietro! Mamma, Mamma!”. Eppure, per nessuno è possibile tornare indietro. La vita è fatta così, bisogna affrontare i cambiamenti, che ci piacciono o no. E’ così che ogni nuovo nato viene consegnato tra le mani della madre, per farlo calmare come solo l’affetto materno sa fare. Allora perché quella nuova vita non può avere questo privilegio di molti? Una grossa mano, ruvida e callosa, gli solleva la testa. Un’altra mano, praticamente uguale, lo solleva per il sedere. Il corpo ancora ricoperto di quel liquido vischioso, che per tanto tempo è stato la sua casa, e da un altro, a lui sconosciuto. E’ caldo, ma gli da i brividi. E’ giusto che un neonato venga a contatto così presto con la verità della vita? E’ giusto che un pargolo scopra subito la terribile sensazione del sangue e del dolore? E’ giusto che una vita appena sbocciata sia la causa e testimonianza della morte di un’altra vita? Sangue, avrebbe imparato quella parola più tardi. Una complicazione, così dissero i medici. Tutte palle. Non uno, in quella stanza, avrebbe scommesso sulla sua salvezza. Complicazioni preannunciate. Una struttura ospedaliera troppo antiquata perché risponda efficacemente a tali esigenze. Eppure, il parto è stato fatto ugualmente li. Pazzia? No, egoismo. Quelle grosse mani, al bambino, danno una sensazione orribile. Una sensazione anche peggiore di quella che gli da il sangue che lo ricopre.
<< E’ proprio un bel bambino. Guarda com’è sano e forte. >>
Il neonato sente che sta scendendo velocemente. Una grossa ombra muscolosa lo segue nella discesa. L’uomo che lo sta sollevando si è piegato per porgerlo a qualcuno. Eppure, non c’è nessuna risposta da quella persona. Solo il braccio di un uomo che si frappone tra il pargolo e la sua naturale destinazione. Il medico si volta e con sguardo torvo, incomincia a parlare.
<< La prego signore. E’ in una situazione critica. Vada fuori della sala. >>
L’uomo, scocciato, si alza in tutta la sua imponenza e sovrasta il piccolo medico. In realtà non è molto alto, nella media diciamo, ma la sua corporatura è spaventosamente grande. Si gira di scatto, incurante dei pianti del neonato e si dirige verso la porta della sala operatoria. Un’infermiera entra di corsa, sbattendo la porta e trascinando con se un carrello pieno di attrezzi chirurgici. Ha il fiatone e sembra aver corso a perdifiato per tutto l’ospedale. Girando il carrello davanti a se, incomincia a correre, spingendolo, per raggiungere il dottore e i suoi aiutanti. Rischia di collidere con l’imponente uomo. Lui, non si preoccupa nemmeno e continua a camminare come nulla fosse. E’ la donna che, con uno sforzo sovraumano, riesce ad evitare lo scontro e portare gli attrezzi in sala operatoria in tempo. L’uomo, afferrando il maniglione della porta, ormai richiusa, la spalanca. L’infermiera, che può concedersi una pausa, si volta ad osservarlo. Non è infuriata con lui; semplicemente non riesce a capirlo. Come può essere così tranquillo e disinteressato quando sua moglie, che ha appena dato alla luce suo figlio, rischia di morire da un momento all’altro? L’uomo esce dalla stanza e lascia che la porta si richiuda dietro di se. Poi, si siede sulle sedie lì davanti e rimane in attesa. Impassibile. Nessun pensiero passa per la sua testa. Non è spaventato per la probabile morte della moglie. Non è felice per la nascita di suo figlio. A dire la verità, non ha nemmeno idea di come chiamarlo. Piegando la testa verso il neonato, lo osserva mentre continua a strillare. Fa una smorfia, quasi un sorriso felice, e lo solleva. Allunga le braccia verso il cielo, alzando il bambino a mezz’aria. Nel silenzio del corridoio dell’ospedale quasi deserto, la voce roca e profonda risuona nel pronunciare il nome del piccolo. Nello stesso momento la porta della sala operatoria si spalanca, sbattendo con forza. L’uomo abbassa il piccolo e lo porta al suo grembo, svelando il volto del dottore. Ha la testa bassa e lo sguardo triste.
<< Signore… Abbiamo fatto tutto ciò che era possibile… Mi spiace… >>
Il silenzio regna nuovamente nell’ospedale. Poi, alzandosi, l’uomo incomincia a parlare. Fa una smorfia, un sorriso simile a quello di prima. Una sensazione di malvagità circonda quell’espressione.
<< Hmpf… Capisco. >>
Poi, senza versare una lacrima, si volta. Incomincia a camminare lentamente per i corridoi vuoti, sotto lo sguardo incredulo. Il bambino continua a piangere e lui muove lentamente le braccia per cullarlo. Il pargolo smette di urlare e sembra calmarsi. Il dottore, stupito, richiude la porta dietro di se e ritorna in sala operatoria. L’infermiera di prima gli rivolge la parola.
<< Dottore, come l’ha presa? >>
L’uomo, ancora incredulo, deglutisce e aspetta qualche secondo prima di rispondere.
<< Credo… bene!? >>
Nella mente del dottore, quell’uomo deve avere qualcosa che non funziona. Intorno a lui c’è un’aura spaventosa, segno di una deviazione mentale alquanto pericolosa. Il piccolo, crescendo, ha incominciato a farsi la stessa idea del dottore su quello che è suo padre. Un essere definibile con una sola parola, malvagio. Non è solo lui. Tutti, in quel piccolo villaggio, sembrano avere qualche rotella fuori posto. Sempre a parlare di morti, combattimenti cruenti e assassini. C’è qualcosa che non va nell’educazione che sta ricevendo. Tutti dicono che è normale, che si vive così, ma qualcosa non torna al ragazzino. Ormai ha dieci anni. Non possono pretendere di fregarlo così. Eppure, molti dei suoi coetanei sono convinti che gli adulti dicono la verità. Quello stile di vita è normale. La morte è all’ordine del giorno. Assassini, questo sono destinati a diventare. Non c’è niente di strano in questo, oppure no? Il giovane non è l’unico a pensare che qualcosa non va in quel villaggio. I suoi amici, quattro per la precisione, sono d’accordo con lui. Decidono che è ora di cambiare le cose, non vogliono diventare come i loro coetanei. La loro percezione del mondo, difatti, è deviata ed ha un non so che di spaventoso. E’ ora di cambiare le cose, di farla pagare agli adulti. Di farla pagare a suo padre. Sa tutto quello che è successo il giorno della sua nascita, glielo ha detto il più grande dei cinque. E’ così che i ragazzini s’incominciano ad incontrare ogni giorno per allenarsi e studiare un piano per ribaltare la situazione, mascherando il tutto per un semplice gioco d’infanzia. Ringraziano i loro genitori solo per quello. Per avergli insegnato a mentire, a creare delle facciate e a tramare nel buio. Quegli insegnamenti, ben presto, gli si sarebbero ritorti contro. E’ così che, cinque anni dopo, accadono quegli avvenimenti. Esiste un giorno, ogni anno, in cui il villaggio fa una specie di festa. Quella tradizione è barbarica e degna del comportamento dei suoi abitanti. Tutti i quindicenni sono obbligati a partecipare ad una cerimonia in cui viene consegnato loro un pugnale. Con quell’arma, dovranno uscire dal villaggio e uccidere una persona. Una qualsiasi va bene, basta che portano indietro una prova della loro opera. I più orgogliosi, addirittura, sono tornati indietro con il cadavere completo della loro vittima. Un’indecenza. Una tradizione assolutamente schifosa. Questo è quello che pensano i cinque ragazzini. Quest’anno è anche la volta del giovane. Quest’anno è anche il giorno della ribellione. Hanno architettato per anni il loro piano e sono pronti a metterlo in atto. Così, inizia la cerimonia. Uno dopo l’altro, i giovani e le giovani del villaggio ricevono il loro pugnale, tra gli applausi dei genitori. Molti sono felici, ormai totalmente soggiogati da quello stile di vita deviato. Lui, invece, brucia di rabbia. Ogni volta che la fila si fa avanti, si avvicina al suo più grande odio. In piedi, alla destra del capo villaggio, c’è suo padre. Lo osserva con occhi pieni di malvagità e con quel suo solito sorrisetto. Lui ricambia con occhi pieni d’odio. Sicuramente il vecchio sa cosa pensa di lui, ma a nessuno dei due importa. Ognuno va per la sua strada con lo scopo di soddisfare i propri obiettivi. Poi, arriva il suo turno. Davanti a lui il vecchio capo villaggio. Indossa il tipico Kimono da cerimonia. I disegni intessuti raffigurano delle scene cruente a cui ormai è abituato. Il vecchio gli porge il pugnale, appoggiato sulle sue mani. Il ragazzo rimane ad osservarlo, in silenzio, per qualche secondo. Nella sua mente sta ripassando il piano creato con impegno in quegli anni. Poi, la voce roca del padre lo interrompe.
<< Forza… Tocca ancora a molti altri dopo di te. >>
I loro sguardi s’incrociano. La sua mente si riempie di nient’altro che odio. Rivede ancora una volta, nella sua mente, la scena di sua madre che muore. Non sogna nient’altro da quel giorno in cui ha giurato vendetta, da quel giorno in cui ha scoperto la verità. Suo padre sapeva che non avrebbe avuto speranze nell’ospedale del villaggio, era troppo antiquato. Sarebbe bastato andare in un qualsiasi ospedale della città per salvare sua madre. Questo, però, avrebbe significato una cosa. L’uomo li avrebbe dovuti seguire. Niente di strano, ma se avesse messo piedi in città, sarebbe stato sicuramente riconosciuto e arrestato in poco tempo. E così ha deciso per lei, com’è solito fare anche con il suo unico figlio. Ha deciso di rimanere nel villaggio. L’unica cosa che gli premeva, dopotutto, era ottenere un erede. La rabbia prende il sopravvento sul ragazzino. Nulla ha più importanza. Il piano fatto con gli amici non era destinato a fallire. Non era nemmeno destinato ad avvenire. Fin dall’inizio sapeva che non avrebbe resistito al desiderio di attaccare quell’uomo. Afferra il pugnale per l’impugnatura. Le mani callose, a causa dei continui allenamenti, sono abituate a quella sensazione. Stringe l’impugnatura con forza nella sua destra e, spostando solamente gli occhi, sferra il suo colpo. Un fendente dalla velocità impressionante. Un attacco imprevedibile, che il padre non può fare altro che subire. La punta della lama penetra solo per qualche centimetro sopra l’ombelico. Di quell’attacco non sarebbe rimasto nient’altro che una cicatrice. Ha fallito nella sua missione. Non è riuscito a vendicare la madre. Non è riuscito ad uccidere quell’uomo spregevole. La ragazza che è dopo di lui nella fila, salta indietro urlando. Tutti i presenti alla cerimonia si concentrano sulla scena, allibiti. Le urla si sovrappongono e qualcuno estrae anche delle armi. Il ragazzino, però, non è affatto preoccupato. Ha altri pensieri per la testa.
“Non ci sono riuscito. Perché non riesco ad affondare mia lama nella sua carne? Ho rinunciato al piano per la mia vendetta personale. Perché non riesco ad ucciderlo? Dannazione!”
L’uomo fa un passo indietro, rispondendo solamente con una smorfia a quella ferita. Si porta una mano al ventre sanguinante e rimane ad osservarlo, con sguardo gelido e pieno d’odio. Non sembra arrabbiato, più che altro sembra deluso. Deluso di avere un figlio tanto debole? Può essere. Dopotutto, per lui conta solo la forza. Il ragazzo cerca di avvicinarsi a lui, ma si rende conto di essere bloccato. Abbassa lo sguardo e vede una mano sul suo ventre. Il capo villaggio, il più forte dei combattenti del paesino, lo ha bloccato. La vecchia mano ossuta lo ha fermato senza che lui nemmeno se ne accorgesse. Gli ha impedito di uccidere suo padre. Una cosa che non può perdonargli, ma che non può nemmeno fargli pagare. Un semplice ragazzino non ha speranze contro un mostro del combattimento come il vecchio capo. Il braccio, pur non essendo all’antico splendore, si muove con forza in avanti scaraventando il ragazzo in aria. Vola per qualche metro e atterra di schiena. La schiena, il sedere e le braccia impattano contro il terreno, provocandogli parecchi lividi, ma non si lascia scappare di mano l’unica arma che possiede. Alcuni uomini escono dal pubblico, brandendo delle Katane e agitandole. Tentano di accerchiarlo per colpirlo. I suoi amici, nascosti tra il pubblico, però, si frappongono tra loro e il ragazzo per proteggerlo. Brandiscono diverse armi, pronti ad usarle per difenderlo. Nel vederli, gli occhi del ragazzo si riempiono di lacrime. Nonostante lui li abbia traditi, preferendo la vendetta personale ad un piano creato con gran fatica, sono pronti a brandire le loro armi in difesa dell’amico. All’inizio è commosso. Vorrebbe dire qualcosa, ma non gli viene in mente niente. Poi, il più grande dei quattro, si volta e alza il pollice, come per dire “E’ tutto ok”. Il ragazzo si limita a fare un sorriso. In questo caso, basta e avanza per rispondere. Gli uomini armati, confusi dalla situazione, incominciano ad innervosirsi. Uno di loro incomincia a parlare.
<< Ragazzini, levatevi dai piedi. Non ho idea di quello che sta succedendo, ma non la farò passare liscia a chi ha osato attaccare il figlio del capo clan. >>
Il più vecchio dei quattro, ancora una volta, fa da portavoce.
<< Mi dispiace, ma non possiamo proprio permetterlo. Se volete attaccare un nostro amico, dovete prima passare sui nostri cadaveri. >>
L’uomo fa una smorfia di dissenso. Poi, solleva la sua arma, pronto a colpirlo. Una voce tonante, improvvisamente, rompe il silenzio, spaventando tutti i presenti. Tutti si voltano verso il vecchio capo villaggio, che si è alzato in piedi. Con lo sguardo fissa duramente il ragazzo. Quest'ultimo, nel frattempo, si rialza da terra.
<< Fermi! Non provate a sferrare nemmeno un colpo. Questo è un ordine. Nemmeno io riesco a capire questa rivolta, ma la faccenda si è fatta una questione personale. Nessuno può attaccare a tradimento mio figlio senza ricevere una mia personale punizione. >>
Poi, rivolgendosi al giovane, riprende a parlare.
<< Non importa chi eri… ragazzino. Ora, sei solamente un estraneo. Questa è solo una delle pene per quest’affronto. Le prossime arriveranno presto, ma prima... devo farti passare la voglia di combattere a quanto pare. >>
Il ragazzo è in piedi, di fronte al vecchio, e brandisce a due mani il pugnale. Tiene la lama davanti a se, pronto a difendersi dai potenti attacchi dell’anziano. I suoi amici sono ancora intorno a lui, a fargli scudo dalla folla minacciosa. Nonostante il capo del villaggio abbia ordinato di stare fermi, non sono sicuri che quella gente ascolterà le sue parole. In quel momento, il giovane nota che suo padre non si trova più dov’era prima. Deve strizzare gli occhi per poterlo riconoscere. Ormai, non è nient’altro che un puntino che si muove in lontananza. Dopo essere stato ferito, se l’è data a gambe senza troppe cerimonie. Ancora una volta, preferisce uscirne indenne piuttosto che rischiare, condannando le persone a lui più vicine.
“Bastardo! Ho mandato tutto a puttane per poterlo uccidere e, oltre a salvarsi per pura fortuna, ora scappa. Ora, mi ritrovo davanti il guerriero più forte di tutto il paese. Non ho speranza di uscirne vivo. I miei amici si sono condannati a morte cercandomi di aiutare. Tutto quello che abbiamo fatto in questi cinque anni è andato in fumo. Questo villaggio non cambierà mai. No!”
Trasportato dalla furia, il suo cuore incomincia a battere all’impazzata. Nella sua mente una sola idea, un solo pensiero: vendetta. Vendetta contro quell’uomo spregevole che dovrebbe essere suo padre. Vendetta contro quello stupido villaggio che non capisce di essere manipolato. Vendetta contro quel vecchio marionettista che muove le fila di tutto il paese. Vendetta contro quel guerriero che gli impedisce di raggiungere la sua preda. I battiti del suo cuore aumentano a livelli enormi. Sente il sangue fluire nel suo corpo a ritmi impressionanti. Il suo respiro accelera, mentre si fa prendere dalla rabbia. Una strana sensazione gli prende buona parte del corpo. Sente l’occhio sinistro pulsare come se stesse scoppiando. Tutto il corpo è in quello stato. Poi, tutto si rilassa. Quella strana sensazione scompare e così anche i battiti rallentano. L’unica cosa che rimane di quei momenti è una furia irrefrenabile. Il vecchio, sbuffando, allunga il braccio destro in avanti e gli indica, con la mano, di avvicinarsi. Un chiaro gesto di sfida, a cui il ragazzo non sa rifiutare. Non in quello stato. Incurante della sicura sconfitta, si lancia in avanti. Il suo scatto è rapido, molto rapido, tanto da lasciare stupito anche lui stesso.
“Uh? Mi sono allenato per anni in vista di questo momento, ma non immaginavo di aver raggiunto un tale livello.”
Da importanza a questo pensiero per poco più di un attimo, poi, la sua mente torna a concentrarsi sul desiderio di vendetta. Staccando la mano sinistra dall’impugnatura, lascia scivolare il pugnale nella destra. Porta il braccio indietro così da raggiungere, con la mano, il fianco. La mancina, invece, viene tenuta davanti a se, con l’avambraccio piegato davanti al suo volto a fare da scudo. Il vecchio, completamente disarmato, non sembra essere preoccupato della situazione. Tende la destra in avanti, chiudendo la sua morsa intorno al polso della mano sinistra del ragazzo. Con un movimento forte, ma fluido, sposta il braccio del giovane e lo porta all’esterno, annullando la sua funzione di scudo. In quello stato di furia e a causa della foga della battaglia, il ragazzino non riesce ad avere un pensiero lineare. Riesce solamente a sentire un brivido di terrore che gli risale la schiena. Non può competere con un simile combattente. L’istinto omicida, però, non vuole saperne di arrendersi e lo spinge avanti nel suo folle piano. Sferra un veloce fendente orizzontale, diretto da destra a sinistra, mirando l’uomo al torace. L’anziano, calmo come non mai, rimane ad osservarlo negli occhi per qualche frazione di secondo. La bocca incurvata in un’espressione triste e gli occhi socchiusi. Il ragazzo, invece, è dominato da un’espressione furibonda. Le ciglia aggrottate, gli occhi iniettati di sangue e i denti digrignati gli conferiscono un aspetto ferino. L’uomo contro la bestia. La saggezza contro la furia. In questo scontro di stereotipi, sembra che il giovane non abbia possibilità di vittoria. Portando avanti la mano destra, tesa, la fa scorrere sul lato della lama del pugnale con il palmo. Poi, con un unico gesto, spinge verso l’esterno, disperdendo il colpo del ragazzo verso il basso e destabilizzandolo. Il giovane rischia di cadere in avanti, ma i riflessi potenziati dalla furia lo salvano. Sposta in avanti il piede destro e lo flette leggermente per evitare di cadere. Poi, ruotando il busto, non aspetta altro e sferra un altro colpo. Questa volta è una stoccata, mirata al cuore, con la punta del pugnale. La velocità, questa volta, è decisamente più alta della prima volta. Anche il vecchio ne è stupito. Le sue sopracciglia si alzano sulla fronte, mostrando una serie di rughe e la bocca si apre leggermente. Poi, la lama penetra la sua carne. La punta del pugnale scompare attraverso il Kimono. Centimetro dopo centimetro, la lama passa attraverso il Kimono per infilzare la carne dell’anziano. Il rumore della carne che si taglia è appena percettibile, ma il ragazzo sembra riuscire a percepirlo. Il filo freddo del pugnale che perfora la carne, schiva una costola e s’infilza nel cuore del capo villaggio. Il giovane stringe i denti tanto da farseli sanguinare. Gli occhi si spalancano e sono iniettati di sangue ancor più di prima. Sembra quasi provare gusto nel farlo. Una tenebra attanaglia la sua mente. Riesce solo a pensare ad uccidere, uccidere, uccidere. Al limite della pazzia, la mente del ragazzo riesce a liberarsi e molla di scatto il pugnale. Alza la testa al cielo, con la bocca spalancata, per urlare. E’ un urlo di terrore. Un rauco lamento di chi si è reso conto di cosa ha fatto. Lui non voleva uccidere nessuno. Lui non voleva essere un assassino. Lui non voleva essere come suo padre. Eppure, lo è diventato. Cade sulle ginocchia. Dai suoi occhi sgorgano fiumi di lacrime. I rivoli ricoprono tutte le sue guance e non accennano a smettere. La bocca gli si muove da sola, per reazione a quella sensazione. Trema e non riesce a smettere.
“Dio. Cosa ho fatto. Io… sono diventato esattamente quello che non volevo. Io, ho ucciso un uomo. Non solo un uomo… Io ho ucciso mio…”
Un dolore lancinante lo prende al braccio destro. Incurante, vista la situazione in cui versa, si limita a guardare. Una mano. Una vecchia mano ossuta gli sta stringendo l’avambraccio. Le dita sono pressate nella carne con tanta forza da provocargli dei lividi. Come ha potuto quell’uomo, dalla presa d’acciaio, morire per mano di un ragazzino? L’anziano, sdraiato a terra con una mano sul cuore, alza la testa e lo guarda in faccia. Il volto contratto per gli spasmi di dolore. Ad ogni respiro le sue forze sembrano sparire e la morte avvicinarsi pericolosamente. Le guance si contraggono continuamente nel vano tentativo di prendere un po’ di respiro. Striscia, con le forze che gli sono rimaste, verso il ragazzo. Il giovane, terrorizzato nel vedere quella scena, smette di piangere. Nemmeno le lacrime riescono più a scendergli. E’ completamente paralizzato dal terrore. Occhi e bocca spalancati, rimane pietrificato mentre l’uomo gli si avvicina. Le mani decrepite gli si appoggiano sulla testa e, facendo sforzo sulle braccia, si solleva. Avvicina il suo volto talmente tanto che il ragazzino è costretto ad incrociare gli occhi per osservarlo. Poi, dopo aver alitato una zaffata di morte, incomincia a parlare.
<< S… Sei… diventato… un uomo… >>
Poi, tenta un ultimo respiro. Tenta di pronunciare il suo nome, ma i polmoni non funzionano più. Uno spaventoso rantolino si ripete per un paio di volte, poi, gli occhi diventano bianchi e la presa scompare. Ricade all’indietro, ormai defunto. Il giovane è in ginocchio, davanti a lui, e ha ripreso a piangere e tremare. La folla che ha visto la scena è allibita. C’è chi è svenuto, chi ha vomitato e chi ha sopportato il tutto. I quattro ragazzi, capendo la situazione, si fondano verso l’amico. Il più grande dei quattro lo carica sulle sue spalle, ancora tremante, e parla agli amici.
<< Dobbiamo andarcene! Non abbiamo più speranze di riuscire nel piano! Separiamoci e pensate solamente a salvare le vostre vite! >>
L’uomo che voleva ingaggiare un combattimento con loro, cade sulle ginocchia, disperato. Balbetta continuamente il nome del capo villaggio, senza riuscire ad oltrepassare la prima lettera. I quattro ragazzi, approfittando della situazione fuggono. Corrono via, ma nessuno sembra inseguirli. I paesani circondano il vecchio capo villaggio nel vano tentativo di aiutarlo. Il più grande degli amici del ragazzino corre come un fulmine, nonostante il peso sulle spalle, e cerca di raggiungere la foresta al più presto. Poi, una voce flebile lo costringe a fermarsi.
<< Ti prego. Smettila di correre. Non posso fuggire ora. Ormai ho fatto quel che ho fatto, devo almeno compiere la mia vendetta. >>
Il ragazzino, seppur visibilmente provato, vuole finire il suo lavoro. Aggrottando le ciglia e scuotendo la testa in segno di dissenso, l’amico gli risponde.
<< Non ci pensare nemmeno. Non ti permetterò di commettere lo stesso errore due volte. >>
Il giovane incomincia ad agitarsi.
<< Lasciami andare! >>
Tirando una testata all’amico, riesce a scendere dalle sue spalle. Approfittando del suo momento di confusione, corre via verso il villaggio.
<< Non provare a seguirmi! Fuggi e cerca di cambiare la tua vita. Addio! >>
Il suo volto è segnato dalla sofferenza di quei momenti. Nemmeno il sorriso che fa all’amico potrebbe funzionare come facciata. Quest’ultimo, dopo essersi ripreso dalla botta, lo incomincia inseguire. L’ha perso di vista, ma poco importa, sa benissimo dove è diretto. Dopo qualche minuto di corsa in mezzo al villaggio deserto, a causa della cerimonia, raggiunge la casa del ragazzo. Ha il fiatone per la lunga corsa, ma non può permettersi un momento di riposo. Ogni secondo di ritardo potrebbe essere fatale per l’amico. Tende la mano destra in avanti e la stringe la presa intorno alla maniglia. Quando apre la porta, trova il ragazzo, di spalle, che sta sistemando il fodero di una spada alla cintura. Stranito, incomincia a parlargli.
<< Che cosa è successo? E quella spada da dove salta fuori? >>
Il giovane, rimanendo voltato, abbassa la testa e lascia ricadere le braccia sui fianchi.
<< Un regalo poco gradito. Non era in casa. Mi ha lasciato un biglietto attaccato a questa spada. Ho fatto il suo gioco. Lui voleva che uccidessi il capo villaggio. >>
Voltandosi, mostra il volto ricoperto di lacrime e riprende a parlare.
<< Volevo ribellarmi a lui. Volevo infrangere queste stupide regole. Dopo tutto l’aiuto che mi avete dato, ho fatto di testa mia. E’ riuscito ad usarmi. Ti prego. Andiamocene da questo posto. >>
Il singhiozzo rende le sue parole quasi incomprensibili. L’amico fa per avvicinarsi. Poi, si ferma. Spalanca gli occhi, come se avesse visto un fantasma. Trema e balbetta. Il ragazzo, non capendo, smette di piangere e chiede spiegazioni.
<< C’è qualcosa che non va? >>
L’amico alza il braccio ad indicare oltre lui e cerca di balbettare qualcosa.
<< L… lo… specchio. >>
Il ragazzo, incuriosito, aggrotta le ciglia e si volta. Dietro di lui c’è uno specchio alto quasi quanto l’intera parete. Alza una mano all’altezza del volto, a mezz’aria, e incomincia anche lui a tremare.
<< Cosa diavolo !? >>
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Cap. 2
[Giappone, Anno 20xx]
“Un brutto sogno. Nient’altro che il solito incubo.”
Il ragazzo, ancora assonnato, sbadiglia e stiracchia le braccia. Non si cura di coprirsi la bocca. Non c’è nessuno nella cabina con lui. Voltandosi, si cerca di specchiare nel finestrino del treno. La pelle chiara è visibilmente stressata dal viaggio. E’ rovinata e, a quanto pare, non vede un goccio d’acqua da almeno un giorno. Le labbra inarcate tendono le estremità verso il basso, in un’espressione ebete. Sotto gli occhi, due grosse occhiaie si fanno strada sul suo volto. Dormire seduto sul sedile di un treno, certamente, non è la postazione più comoda a questo mondo. L’unico occhio scoperto ha uno sguardo perso e ancora assorto nei propri pensieri notturni. I capelli neri sono disordinati e solo il grosso ciuffo che copre l’occhio sinistro sembra essere rimasto intatto. Sbadiglia un’altra volta, questa volta portandosi la mano davanti alla bocca. Da un altro sguardo al finestrino, questa volta all’esterno. Il paesaggio cambia velocemente, ma sembra che il treno sia ancora in mezzo alle campagne.
“Questa volta è durato molto di più. Non sono mai arrivato fino a quel punto. Mi domando se sia la fine o c’è altro.”
Il rumore di un tacco sul pavimento della cabina attira la sua attenzione. Una ragazza, a prima vista sulla ventina, entra nel piccolo locale. Il giovane, istintivamente, la osserva negli occhi. Lei, intimidita, arrossisce.
<< S… scusami. Quei posti sono occupati? >>
Lui, capendo d’averla intimorita con quello sguardo da prima colazione, fa un sorriso e le risponde.
<< No, affatto. Il mio nome è Henka Gansaku, piacere di conoscerti. >>
Lei entra nella cabina e si siede sul sedile in fronte al ragazzo, lasciando scivolare una grossa borsa sul sedile a fianco a lei.
<< Io, invece, mi chiamo Nao Ayasegawa. >>
La ragazza sorride, sollevata rispetto a prima. I due, dopo un inizio discorso, sembrano finire in una situazione di stallo. Si osservano l’un l’altro negli occhi, muti. Poi, Henka dice la prima cosa che gli viene in mente.
<< Dove sei diretta di bello? >>
Lei, un po’ confusa per la domanda, aspetta qualche secondo, prima di rispondere. Capendo che dietro di essa non si cela nessuna malizia, decide di rispondere.
<< Vado a Wan no Toshi per ricominciare l’università. Tu, invece, dove sei diretto? >>
Il ragazzo distoglie lo sguardo e risponde, a bassa voce.
<< Anche io vado a Wan no Toshi, ma per scopi molto diversi. In un certo senso posso definirlo un viaggio di piacere, oppure un dovere. >>
La ragazza, vedendo una triste luce nel suo unico occhio scoperto, evita di proseguire il discorso, lasciando Henka nei suoi pensieri.
“Wan no Toshi. Una metropoli conosciuta a livello mondiale. Un centro ricco d’uffici, negozi e qualsiasi tipo di tecnologia avanzata. Servizi di tutti i tipi, ogni sogno qui diventa realtà. Diceva così l’opuscolo, no? Bah, non m’importa. Può avere tutte le spiagge dorate del mondo, un’industria seconda solo a Tokyo, ma non è per quello che m’interessa. Una facciata. Nient’altro che una facciata. Se solo i suoi abitanti sapessero cosa si nasconde nelle sue strade.”
Il treno rallenta progressivamente. Le ruote metalliche stridono sulle rotaie, svegliando Henka dai suoi pensieri. Una voce vagamente metallica, dall’altoparlante, manda un messaggio che si ripete in continuazione.
<< Wan no Toshi, stazione di Wan no Toshi. >>
Henka viene improvvisamente risvegliato dai suoi enigmatici pensieri. Al suono dell’altoparlante, spalanca gli occhi solo per un attimo. Si volta verso Nao che, nel frattempo, ha spostato i suoi occhi sulla borsa. Raccoglie il suo unico bagaglio e si alza in piedi, senza dire nulla. Il ragazzo, capendo di essere stato scortese, cerca di farsi perdonare. Si alza a sua volta dal sedile e le parla.
<< Scusa, la mia reazione era del tutto inopportuna. Dopotutto, sono stato io ad introdurre l’argomento. Per farmi perdonare, credo che devo almeno darti una mano. >>
Lei, sentendolo parlare, si volta verso di lui. E’ in quel momento che lui prende la valigia dalle sue mani.
<< Forza, scendiamo. Te la porto fino a dove devi andare, così non fai fatica. >>
La ragazza gli risponde con un sorriso e lo ringrazia. Henka, girandosi verso il seggiolino affianco al suo, afferra per la tracolla un grosso borsone nero. La sua valigia. Quella grossa sacca tubolare, lunga poco più di un metro, contiene tutti i suoi averi. In un certo senso, si può dire che è casa sua, poiché una casa in mattoni e cemento non la ha. Avvicina il braccio alla spalla e, con un gesto veloce, vi appoggia la tracolla. Tenendola ferma con la mano, tiene la sua borsa verticale mentre, con l’altra mano, solleva la valigia di Nao. La ragazza esce dalla cabina e, mettendosi in coda, attende di scendere dal treno. Il ragazzo la segue a ruota, riuscendo a raggiungere la stazione solo dieci minuti dopo. Wan no Toshi è una città molto trafficata e caotica. Code come quelle sono nulla. I due, fortunatamente, riescono a non separarsi. Usciti dalla folla di gente, Henka tenta di parlarle.
<< Nao, allora, dove devi andare? >>
Lei accenna una risposta, ma s’interrompe. Incomincia a correre e, voltandosi, gli urla contro.
<< Presto Henka! Seguimi! >>
Sbigottito, il ragazzo rimane fermo per qualche secondo. Quando si rende conto che la direzione della ragazza è un bus in partenza, però, incomincia a correre a perdifiato. L’autista del bus, capendo la situazione, tarda a partire. I due riescono così a raggiungere la loro meta. Nao è ferma davanti alla porta del mezzo, ansimando per la corsa. Henka, davanti a lei, attende che si riprende per poterla salutare. La ragazza, alzando gli occhi, squadra quel ragazzo che, probabilmente, non avrebbe più rivisto. E’ alto qualche centimetro in più di lei, intorno al metro e settanta. La carnagione chiara e il fisico slanciato. Due braccia forti, dalla muscolatura ben definita. Le mani grandi che stringono le due valigie come se pesassero poco più di una piuma. Il volto delicato, ma allo stesso tempo dotato di un fascino rude. L’unico occhio che riesce a scorgere, il destro, è di un bel color nocciola scuro. Un marrone scurissimo tanto che, senza la luce di quella giornata, potrebbe sembrare nero. I lunghi capelli nero corvino, disordinati, gli arrivano poco sopra le spalle. L’occhio sinistro è coperto da un grosso ciuffo che lo nasconde completamente. Indossa un paio di jeans neri, stretti e a vita alta. Una cintura nera, in pelle e coperta da piccole borchie, li ferma all’altezza della vita. Ai piedi indossa dei grossi stivali neri con la punta larga. La maglia nera, anonima, gli calza a pennello lasciando leggermente risaltare i pettorali. Sopra di essa indossa un giaccone di pelle nera, sempre sbottonato e con il colletto alzato. A prima vista, può sembrare una persona fredda e scontrosa, ma non è affatto così. In quei pochi minuti, si è dimostrato una persona simpatica e gentile. Lei, smettendo di ansimare, fa per salutarlo.
<< Henka, mi hai veramente aiutato. Senza di te avrei sicuramente perso il pullman. Ti ringrazio… e spero di ritrovarti uno di questi giorni. >>
Tende il braccio in avanti, afferrando la maniglia della valigia. Lui, lascia la presa e la saluta con la mano libera.
<< Nessun problema Nao. Sono felice di averti conosciuto. Ci vediamo! >>
La ragazza, sorridendo, sale sull’autobus. Mentre lo saluta con la mano, le porte del mezzo si chiudono. Henka aspetta che il bus si allontani, poi, si gira e si guarda intorno. Dopo aver trovato un’agenzia turistica, fa per raggiungerla. Mentre cammina, gli viene da ripensare a quell’incontro.
“ Faccio schifo come casanova. Avrei dovuto salire su quell’autobus. Mi sarei perso, ma chi se ne importa. Sarebbe stata una scusa valida per farmi ospitare da lei.”
Come un ragazzino, incominciare a ridacchiare tra sé e sé mentre immagina scene vietate ai minori. Tornando serio, cerca di focalizzarsi sul suo vero obiettivo.
“ Ho bisogno di trovare un alloggio. Quell’agenzia sarà sicuramente di grande aiuto. Piuttosto, non so in che parte della città sceglierlo. Credo che andrò semplicemente al più conveniente. Purtroppo, trovare la sede del Kazoku no Kumiai non sarà facile. Saranno ben nascosti per non essere stati trovati per centinaia d’anni. L’unione dei clan è un’organizzazione interclan che esiste fin dall’epoca dei grandi signori della guerra.”
Nel frattempo, entra nell’agenzia e prende diversi volantini. Poi, uscendo, si siede su una panchina per sfogliarli.
“F creata poiché, con l’importanza che alcuni di loro stavano guadagnando, urgeva un ordinamento per evitare di scatenare guerre tra loro, che avrebbero causato innumerevoli morti. I mercenari si unirono dunque sotto questa grande unione che li rappresentava tutti, anche i più piccoli. I vertici pensanti di quest’organizzazione erano i diciotto capi clan dei clan più forti. La loro sede, in seguito all’unificazione del Giappone, è nascosta da qualche parte in questa città e io la troverò.”
Dopo aver scelto il suo futuro alloggio, si alza e si volta verso il centro.
<< Credo che andrò a farmi un giretto già che sono qui. >>
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Cap. 3
Ormai, si è fatta sera. Il sole rosso fuoco cala verso terra, scomparendo dietro la miriade di grattacieli che dominano la città. Henka, stanco, è seduto su una panchina. Le braccia, tirate indietro, si appoggiano sullo schienale dell’oggetto. Le gambe sono distese in avanti, mentre agita i piedi insistentemente.
“ Ormai è arrivato il tramonto. Come si chiamava quel dormitorio che avevo visto sul volantino?”
Sposta la mano e la infila dentro una tasca della giacca. Scava tra le cianfrusaglie per qualche secondo. Poi afferra quella che, al tatto, sembra carta plastificata. Senza indugio, estrae l’oggetto e se lo porta davanti. È un piccolo volantino ripiegato su se stesso in almeno quattro parti. Spostando anche l’altra mano, lo spiega e lo sfoglia. Legge con svogliatezza il testo, per saltare direttamente alle informazioni che gli interessano.
“ Come raggiungerci... A quanto pare, dalla stazione, parte un autobus che porta fino a pochi isolati da li. Parte ogni mezz’ora, da davanti alla stazione. Comodo. Direi che è ora di andare a vedere di trovarmi un posto in cui dormire.”
Ripiega il foglietto e lo rimette nella tasca. Poggia le mani sul sedile della panchina e le usa come leva per alzarsi. Una volta a mezz’aria, sì da una spinta con le gambe per portarsi in posizione eretta. Agita per un attimo le mani, come per trovare l’equilibrio perso durante quella pausa troppo lunga e scomoda. Sbadiglia. Poi si stiracchia facendo poco caso alle occhiate stranite dei passanti. E’ abituato a fare quell’effetto di curiosità misto paura alla gente. Solitamente, i suoi vestiti, la sua espressione fredda non lo fa sembrare la persona più affidabile di questo mondo. S’infila le mani in tasca e, con faccia imbronciata, si dirige verso il pullman.
In uno dei quartieri commerciali di Wan no Toshi esterni al centro cittadino, c’è un gran via vai di gente. Gruppi di persone di qualsiasi età si danno il cambio in svariati locali e negozi. Ci sono gli impiegati che, tornati dal lavoro, si trovano con gli amici per divertirsi un po’. Ci sono gli alunni delle scuole che si trovano il pomeriggio per farsi un giro. Insomma. Una folla eterogenea di cui sarebbe impossibile descrivere ogni insieme. Da un negozio d’abbigliamento, escono un gruppo di ragazze ancora in uniforme scolastica. Le quattro ridono e scherzano, divertite da quel pomeriggio passato all’insegna dello shopping. Una di loro, scatta in avanti e fa da blocco al passaggio delle altre. E’ molto alta e, per parlare ad una di loro, piega la schiena in avanti avvicinandosi pericolosamente. La coda di cavallo, nero corvino come il resto dei capelli, scivola verso il basso, trascinata dalla forza della gravità. Ha diciotto anni e frequenta la stessa classe dell’amica. Guardando l’altra con i suoi occhi verdi, le incomincia a parlare.
“ Allora Hana, ora mi devi dire la verità. Siamo tutte e quattro molto amiche da quando facciamo parte del club di nuoto. I vestiti che hai preso sono molto carini. Su chi hai intenzione di far colpo?”
Hana, a quelle parole, diventa completamente rossa e distoglie lo sguardo. Lei, al contrario dell’amica, è molto minuta. Non supera sicuramente il metro e sessantacinque. Ha dei capelli biondissimi, quasi dorati, perfettamente naturali. Gli occhi color ghiaccio sono penetranti e risplendono di una luce di timidezza. Ha un seno poco sviluppato che le conferisce il tipico fisico da “lolita”. Il suo aspetto è più unico che raro in un paese come il Giappone. Hana, difatti, è per metà Giapponese e per metà Svedese. Sua madre si trasferì in Giappone molti anni prima, dopo aver conosciuto suo padre in un viaggio di piacere ed essersi innamorati perdutamente l’uno dell’altro. Il suo viso è ciò che la fa rassomigliare di più alla madre. Non ha né occhi a mandorla, né una qualsiasi altra caratteristica che può farla assomigliare anche lontanamente ad una delle sue amiche. Il suo aspetto, tipicamente nordico, unito alla delicatezza del suo piccolo corpo la rende una ragazza molto popolare nella loro scuola. Lei, però, è molto timida e difficilmente riesce a sfruttare questa popolarità, rimanendo più volte soggiogata. Questo è uno di quei casi. Yui, sua amica da parecchi anni, è un’innata pettegola. Non lo fa con cattiveria. Le piace semplicemente sapere tutto di tutti. Hana, non sapendo cosa rispondere a quella domanda così improvvisa, cerca di nascondersi abbassando gli occhi e chiudendoli nella speranza che l’amica si arrenda. In realtà non le piace nessuno, ma sa che Yui non sarebbe soddisfatta di una risposta simile. Miho, abbracciandola, ruota frapponendosi tra le due.
<< Yui, finiscila di fare così con Hana. Lo sai quanto è timida. Potrebbe anche scoppiare a piangere se continui a pressarla. >>
La ragazza si allontana leggermente facendo un muto gesto di scuse. Miho ha la stessa età delle altre due ragazze, ma non frequenta la loro stessa classe. Si conoscono per mezzo del club di nuoto e ormai sono diventate grandi amiche. Miho è alta quanto Hana ed ha un gran seno, il che la fa una delle ragazze più popolari di tutta la scuola. A questo si aggiunge il suo viso delicato, i lunghi capelli ramati e la sua innata tenerezza. C’è solo un motivo per cui questa ragazza dagli occhi color nocciola non trova un ragazzo, non le interessano. Miho, difatti, è sempre cresciuta in una famiglia di soli uomini, a causa dei continui viaggi lavorativi della madre e dei tre fratelli maggiori, che l’ha portata a vedere l’uomo sotto una diversa. Cresciuta, nonostante tutto, molto femminile ha incominciato a provare interesse per le appartenenti del suo stesso sesso, probabilmente trascinata dall’esempio fornitole dai suoi fratelli. Hana è una delle ragazze che preferisce in tutta la scuola e, sapendo di non avere speranze con lei, si limita a proteggerla e starle il più vicino possibile. Certe volte si lascia trasportare, ma riesce sempre a fermarsi prima di far qualcosa di sbagliato. Le quattro incominciano a camminare per le vie trafficate del quartiere. Poi, uscite dalla folla, l’ultima di loro fa per salutarle. E’ la più piccola delle quattro, con i suoi sedici anni. Poco più alta di Hana e Miho, con i capelli arancio e gli occhi di un castano chiaro, che li fa sembrare dorati. Ha un seno nella media, ma comunque più grande di quello di Hana. Sempre in movimento e piena d’energia è una delle migliori nel loro club di nuoto. Le amiche l’hanno riaccompagnata fin davanti a casa, per evitare di farle fare strada da sola. Le quattro si salutano velocemente e si separano. Hana, da sola, va verso la fermata di un bus per tornare a casa.
Henka è seduto in uno dei sedili in fondo al pullman. Arrivato alla stazione, è riuscito a prenderlo per il rotto della cuffia. Stava per partire, ma notandolo l’autista lo ha aspettato. Casualmente, l’uomo è lo stesso che qualche ora prima guidava l’autobus che ha preso Nao. Salendo, il ragazzo non ha potuto far altro che pensare alla ragazza.
“ Chissà se anche lei è scesa nella mia zona. Inutile chiederlo all’autista, sicuramente non si ricorda. Può anche ricordarsi di lei, ma è veramente dura che abbia notato dove è scesa. Immagino che sia sempre così affollato. “
Già alla stazione, la prima fermata del mezzo, le sedie erano tutte occupate. Dopo due sole fermate, senza nemmeno essere usciti dal centro, il bus era pieno di gente. Guardando fuori del finestrino, Henka si pone qualche domanda, abbastanza frustrato.
“ Come diavolo farò ad uscire da qua quando arriverò alla mia fermata. Spero che scendano tutti prima o mi toccherà sfondare un vetro. “
Dopo circa dieci minuti di viaggio in mezzo al traffico caotico della città, il bus rallenta e si ferma nuovamente. Un’altra fermata. Le porte si aprono, con uno sbuffo, per far salire la gente.
Hana, raggiunta la fermata del bus, rimane un po’ spaventata nel vedere che non c’è nessuno oltre a lei. Si siede sulla panchina, durante l’attesa dell’autobus, sperando che arrivi il prima possibile. Si guarda in giro, ma nessuno passa per quella strada secondaria. Deglutisce, un po’ spaventata da quella situazione.
“ Speriamo che il bus arrivi presto. Questo posto non mi piace per niente. Mi da i brividi.”
Da dietro l’angolo, improvvisamente, si sentono delle voci. Hana gira la testa di scatto e guarda in quella direzione, notando delle ombre che si avvicinano pericolosamente. A quanto pare, si tratta di un gruppetto di ragazzi. Deglutisce di nuovo, sempre più spaventata. Il rumore delle porte a soffio del mezzo che si spalancano, la riportano alla realtà. Si gira verso la porta e salta in mezzo alla folla, guadagnandosi un piccolo spazio. I ragazzi girano l’angolo e, vedendo l’autobus strapieno, fanno segno all’autista di andare. L’uomo chiude le porte e il mezzo riprende la sua corsa. Hana, finalmente calma, tira un sospiro di sollievo e si appoggia dove può. Henka, stupito dalla scena, non riesce a distogliere lo sguardo da lei. Una ragazza molto carina, ma anche molto strana.
“ Che fretta c’era per salire così di soprassalto? Si è praticamente lanciata sulla folla.”
Henka fa spallucce, capendo di non poter leggere nella mente delle altre persone. Le successive fermate passano in modo opposto alle altre. La gente, pian piano, comincia a scendere l’una dopo l’altra. Quando, finalmente, arriva la sua fermata, non ci sono più di dieci persone sul mezzo, ragazza compresa. Hana scende dalla porta anteriore, mentre Henka da quella posteriore. I due prendono direzioni e si separano. Hana si dirige direttamente verso casa, cercando di stare il meno possibile da sola. Non è che quella sia una zona pericolosa, ma i maniaci ci sono ovunque. Inoltre, essendo una ragazza molto paurosa, tende a pensare sempre al peggio. Dopo essersi allontanata dalla folla del pullman, incomincia a correre velocemente verso casa. Girando un angolo, però, va a scontrarsi con un uomo. E’ abbastanza giovane, sui venticinque anni, ed è accompagnato da altri due. Non sembrano per niente le tipiche persone di cui ti puoi fidare. Hana, indietreggia, spaventata. Rimane paralizzata ad osservarli con gli occhi spalancati. L’uomo contro di cui si è scontrata è abbastanza alto e molto muscoloso. Indossa una semplice canottiera nera e un paio di jeans blu scuro. I capelli biondi sono fermati indietro con un cerchietto nero. La bocca, inarcata in una smorfia di disappunto, stringe una sigaretta rotta piegata per il nervoso. Osservandola con gli occhi marroni, pieni d’odio, sputa la sigaretta ancora accesa per terra. Un altro, appoggiato sul muro, è più basso del primo. E’ abbastanza grosso e tarchiato. Indossa una grossa felpa viola che lo fa ancora più grande. I pantaloni verde scuro sono larghissimi e strisciando per terra, girando sotto le scarpe dello stesso colore della felpa. Sulla testa indossa un capello di lana color verde muschio che lo copre fin poco sopra gli occhi. Ha una gamba appoggiata al muro. Con fare minaccioso, si solleva, sfruttando quest'ultima come leva. L’ultimo è anche più alto del primo, un vero e proprio colosso, ma dal fisico esile. Tra i tre sarebbe quello che fa meno paura, se non fosse per quel viso appuntito e dall’apparenza di vecchio maniaco. Dagli zigomi protesi, oltre le guance scavate, la osserva con gli occhi apparentemente privi d’emozioni. I capelli sono corti e scuri. Il primo dei tre, probabilmente il capo, la afferra per un braccio e incomincia a parlare.
<< Mi hai fatto veramente innervosire ragazzina. Ti pare normale correre per le strade? Devi chiedermi scusa. >>
Hana, singhiozzando per la forte stretta al braccio e per la paura gli risponde.
<< Scu… scusami. >>
L’uomo si gira verso gli altri due, muti, e incomincia a ridere. I due si guardano in faccia. Poi, prendono anche loro a ridere. Il capo si rigira e riprende a parlare, avvicinandosi al volto di Hana.
<< Non credere che queste scuse mi bastino. Mi hai rovinato la serata. Ora, devi farmi divertire. >>
Avvicina ancora il volto a lei ed apre la bocca, estraendo la lingua, nel tentativo di strapparle un bacio forzato. Hana si volta e urla.
Henka, qualche via più in là, gira spaesato alla ricerca del dormitorio. Ormai è buio e non riesce a muoversi bene. Fa fatica a leggere la cartina nelle tenebre ed è costretto, ogni volta, a fermarsi sotto un lampione per leggerle.
“Ma che diavolo, non potevano farla più semplice questa cartina. Bah, è colpa mia. Sarei dovuto venire qua prima, non so nemmeno se c’è posto.”
Arreso nel cercare il suo punto sulla cartina, la richiude e cerca di tornare alla fermata degli autobus da cui ripartire. Fortunatamente, gli ci vuole poco per ritrovare la strada. Poco prima di raggiungere la sua metà, però, sente un grido. Agitato, non può far altro che voltarsi nella direzione di esso. Rendendosi conto che si tratta di una ragazza in pericolo, si lancia alla sua ricerca. Incomincia a correre a perdifiato verso il luogo da cui proviene l’urlo.
Le luci d’alcune case lì vicine si accendono improvvisamente. L’uomo, preoccupato, sferra un pugno al volto di Hana, facendola cadere per terra.
<< Stupida puttana, guarda cosa hai combinato. Muoviti, rialzati. >>
L’uomo la strattona per un braccio, costringendola a rialzarsi. Poi, incomincia a trascinarla di forza per spostarsi da quel luogo. Voltandosi all’indietro chiama gli altri due.
<< Ehi! Muovetevi. Ho intenzione di fargliela pagare a questa mocciosa. Se volete rimanere qua e farvi prendere da qualche volante rimanete pure, io sloggio. >>
Senza dire nulla, i due lo raggiungono. Hana piange, cercando di liberarsi dalla presa del maniaco. L’uomo risponde stringendola con più forza e si volta per girare l’angolo della strada. Svoltando, gli occhi di Henka e del maniaco s’incontrano a pochi centimetri l’uno dall’altro. Entrambi stupiti, spalancano gli occhi e indietreggiano istintivamente. Hana sbatte contro la schiena del biondo. Henka, sentendo il suo lamento per il colpo, posa gli occhi sulla ragazza. La riconosce e capisce perfettamente la situazione. L’espressione di stupore viene sostituita da una di rabbia. Aggrotta le ciglia e incomincia a parlare con voce tonante all’uomo.
<< Ehi, bastardo. Togli le mani da quella ragazza. >>
L’uomo alza un sopracciglio, scocciato e stupito. Ridacchia. Poi, incomincia a parlare con tono sbruffone.
<< Cosa hai detto moccioso? Stai cercando grane? >>
Akame sferra un finto diretto, fermando il colpo a pochi centimetri dal naso dell’uomo. Il biondo indietreggia con le spalle, credendo di aver schivato il colpo grazie ai suoi riflessi. Spinge la ragazza verso i compari.
<< Tenete la ragazzina. A lei penserò dopo. Sembra che stasera ci siano un sacco d’idioti qua in giro. >>
Poi, si mette in guardia e risponde ad Henka.
<< Forza ragazzino, fatti sotto. >>
Il ragazzo, facendo un sorrisetto di soddisfazione, risponde a sua volta.
<< Con piacere. >>
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Cap. 4
Il biondo è visibilmente furioso. Ha i denti digrignati e le ciglia aggrottate, in un’espressione vagamente ferina. Convinto di essere in netto vantaggio, si lancia contro Henka per colpirlo. Fa scivolare il piede destro in avanti e, seguendo il movimento traslatorio, carica un potente diretto al volto del ragazzo. Il pugno chiuso della sua mano destra si avvicina, pronto a colpirlo con quelle nocche segnate da tante risse. Il giovane, con la sinistra stretta intorno alla tracolla della borsa, si rende conto di non poter parare il colpo in quelle condizioni. Decide, dunque, di spostare la mano. Spostando la mancina dalla spalla con gran velocità, la porta esattamente davanti al pugno dell’avversario, fermandolo. Il palmo aperto accoglie con rude gentilezza il colpo dell’avversario. La mano indietreggia di qualche centimetro, prima che i muscoli contraendosi incassano del tutto il colpo, disperdendo la sua energia residua. Tenendo la mano stretta nella forte presa delle sue dita, osserva come la valigia si dimostrarsi una perfetta arma. Il sacco tubolare, privato del suo unico appoggio, rotea attorno alla spalla sinistra di Henka. Una delle estremità, a causa del movimento continuato dall’energia cinetica rimanente, impatta contro la cassa toracica del biondo. Non lo fa con esagerata violenza, ma quanto basta per provocargli un grosso livido. All’uomo scappa un urlo di dolore, subito soffocato dalla vergogna di farsi vedere in quello stato dai suoi scagnozzi. Roteando di nuovo gli occhi verso il suo avversario, il maniaco fa per parlare.
<< Bastardo, non credere … >>
Il ragazzo, spietato, non gli da nemmeno il tempo di rispondere. Mentre il biondo era impegnato a salvare la sua faccia, difatti, lui caricava un potente diretto con il braccio destro, perfettamente libero. La mano, chiusa in un minaccioso pugno, si avvicina a gran velocità al volto sventurato dell’uomo. Un colpo che, decisamente, va oltre le sue capacità. Non riuscirebbe mai a parare una cosa del genere. Fa appena in tempo a vederlo e assumere un’espressione a metà tra il terrorizzato e lo schifato. Le nocche del giovane impattano contro il naso cartilagineo del maniaco, rompendolo inevitabilmente. Prima, la punta si piega forzatamente; poi, la struttura portante si spezza in un sonoro “crack”. Mollando la presa della sinistra, Henka lascia cadere a terra il biondo. L’uomo sbatte la schiena, cadendo sul marciapiede in cemento, ma pensa a ben altro dolore. Si porta, istintivamente, le mani al naso, coprendo quell’orribile scultura d’arte moderna. Inizia ad urlare di dolore. Biascica parole incomprensibili a causa del singhiozzo. Dagli occhi strizzati con forza, si fanno strada quelle che sono sicuramente lacrime. Si rotola per terra come un animale ferito, urlando e frignando senza fine. Il ragazzo, deluso, lo guarda dall’alto al basso mentre gli parla.
<< Tch. Speravo che, dopo tutte quelle arie che ti sei dato, saresti riuscito a resistere ad un pugno. Invece guardati. Sei per terra a frignare come un moccioso che ha fatto a botte per la prima volta.>>
Uno dei due scagnozzi, il più grasso, si lascia prendere dall’ira e attacca con furia.
<< Figlio di puttana, non alzare le mani su Satoshi! >>
Lascia andare Hana, buttandola contro l’altro complice. La ragazza si agita e urla, cercando di liberarsi. Il colosso, nonostante l’apparenza, ha una presa ferrea e non accenna a mollare. La giovane, sconfitta, si arrende e incomincia a piangere. Ormai, sembra che può fare affidamento solo su quello sconosciuto dall’aria spaventosa. I suoi vestiti, il suo aspetto, tutto di lui le fa paura. In qualche modo, quel misterioso salvatore le fa anche più paura dei tre ceffi. Il ciccione, infilando la mano destra sotto la felpa, estrae un lungo tubo metallico. L’arma, seppur rudimentale, è fatta in acciaio e Henka non ha intenzione di farsi colpire. Con gli occhi fissi sul suo avversario, si prepara ad anticipare le sue mosse. Notando il suo sguardo attento e preoccupato, il grassone cerca di farlo infuriare, insultandolo.
<< Che c’è pivello? Hai paura? Non eri tu quello che faceva tanto il gradasso? Vieni qua. Dove scappi! Ah ha ah.>>
Il maniaco, brandendo l’arma improvvisata con una mano, sferra un fendente orizzontale mirato alle costole del ragazzo. Henka, con riflessi felini, individua il colpo e scatta all’indietro con un balzo. Piega leggermente le gambe e, distendendole di colpo, compie un piccolo, ma veloce, salto che gli permette di schivare il colpo. La barra d’acciaio vibra nell’aria, quando il grassone si prepara a sferrare un altro attacco. Solleva il braccio sopra la spalla, per poi riabbassarlo velocemente in direzione della testa del giovane. Henka fa una smorfia, scocciato.
“ Cazzo. Devo per forza pararlo. Non ho altra scelta.”
Con un movimento fulmineo, sposta la mano sinistra sulla cerniera della borsa. La tira con tutta la forza che ha in corpo, tanto che sembrano uscire scintille dalla sede. Con un movimento altrettanto veloce, nel frattempo, afferra un oggetto dentro di essa. Stringe l’oggetto cilindrico nel palmo della destra con forza, pronto ad estrarlo. Lo spilungone, osservando la situazione, capisce che il ragazzo ha un’arma. Preoccupato per la sorte del ciccione, lancia Hana per terra ed estrae un coltello dalla tasca. La ragazza cade a terra, sbattendo contro il marciapiede. Urla di dolore e rimane accasciata a piangere, sperando che tutto finisca al più presto. Il colosso, intanto, cerca di avvicinarsi per entrare nella mischia, ma ormai è troppo tardi. Il tubo metallico s’infrange contro una sottile lama. L’acciaio vi passa attraverso, tagliandosi come burro. I due maniaci guardano esterrefatti quell’arma tanto antica quanto spaventosa. Non ci sono dubbi, quella che il ragazzo ha tra le sue mani è una Katana. I loro occhi, stupiti, riescono a vedere poco o nulla di quella splendida e temibile arma. L’impugnatura ricoperta di seta nera compare appena dalla mano destra del giovane. La decorazione, presente sul pomello all’estremità dell’impugnatura, è arancione e riflette i bagliori azzurri della luna. La guardia sembra fatto dello stesso materiale della decorazione. Il colore ramato, anche qui, riflette la luce lunare che mostra ogni sua singola deformazione artistica. Un vero capolavoro in grado di mettere i brividi, soprattutto ai due maniaci. I loro occhi, difatti, arrivano alla minacciosa lama. Il ragazzo non l’ha estratta completamente, anzi. Con la mano sinistra ha afferrato il fodero, di modo che solo una sezione della lama comparisse. L’anima della spada e i primi tre centimetri di filo, niente di più. La parte tagliente riluce dei colori della luna, completamente inondata dal suo chiarore pallido. La struttura, invece, è immersa nella notte e sembra nera come il buio. Incantati da quella visione, i due non guardando nemmeno il fodero nero e privo di decorazioni. Sono accecati da quella lama. C’è qualcosa in essa, oltre alle sue temibili potenzialità, che li fa tremare come foglie. Henka, affatto stupito dalla loro reazione, rimane ad osservarli per qualche secondo. Il biondo, nel frattempo, si è dato una calmata. Dopo essere riuscito a sopportare il dolore al naso, si è ritrovato ad osservare impotente alla scena. Spaventato, appoggia una mano a terra per alzarsi. Si tiene una mano sotto il naso nel tentativo, vano, di fermare la fuoriuscita del sangue. Voltandosi verso i due amici, gli urla contro.
<< Vi sembra il momento di fare le belle statuine!? Pezzi d’idioti, ha una spada! Scappiamo! >>
Lo spilungone, rendendosi conto di non poter far nulla nemmeno col suo coltello, lascia cadere l’arma a terra. La lama metallica rimbalza sull’asfalto, tintinnando. Il ciccione è, però, il primo dei due a seguire i consigli del capo. Si volta di scatto dalla parte opposta ad Henka e lancia quel che resta del tubo d’acciaio oltre la recinzione di una casa. Poi, seguito dallo spilungone, incomincia a correre. Il biondo li segue, battendo in ritirata tutti e tre insieme. Il ragazzo, tranquillizzandosi, tira un sospiro di sollievo. Avvicinando le mani, rinfodera completamente l’arma e fa per rimetterla nel suo bagaglio. Hana, sentendo che i tre sono scappati, incomincia a piangere di meno, ma non riesce a non pensare di essere in pericolo. Dopotutto, lo ha detto anche quell’uomo: Il misterioso salvatore brandisce una spada. Si rannicchia su se stessa, sperando con tutta se stessa che se ne vada. Henka infila spada e fodero nella sacca tubolare e richiude la cerniera. Poi, perdendosi nell’immagine della luna, incomincia a riflettere.
“ Ancora una volta ho dovuto ricorrere a questa spada. Prometto ogni volta di non farlo, non in queste situazioni, non contro questi nemici, ma non riesco mai a mantenere la mia promessa. Poco importa. Ormai sono a pochi passi dal mio obiettivo. Troverò la Kazoku no Kumiai e riuscirò nel mio intento. Non ho paura di loro, nemmeno dei clan principali. Sono ben consapevole di come vengono scelti i diciotto rappresentanti. Un torneo. Ogni cinque anni si svolge un torneo diviso nelle diciotto discipline del Bujutsu. Il vincitore d’ogni disciplina raggiunge il rango di Ken no Kami, Dio della spada. Persone che hanno raggiunto la massima espressione del loro stile di combattimento e non temono sconfitte nella loro disciplina. Ci può essere solo un Ken no Kami per clan, al massimo. Il risultato è che ogni clan dotato di Ken no Kami diventa uno dei diciotto rappresentati della Kazoku no Kumiai. Non saranno nemici tanto comodi e sarà meglio farseli alleati, ma il mio obiettivo a priorità assoluta. Non importa quale mostro sacro della spada mi troverò davanti, sconfiggerò chiunque. Lo farò con questa spada. Per quanto significhi per me, rimane in ogni caso un importante simbolo per la mia missione.”
Henka, sentendo il pianto di Hana, torna sulla terra. Incomincia a fissarla, consapevole del suo stato d’animo attuale. Capendo di non poter fare molto altre, e il fatto che quasi sicuramente anche lui le fa paura, si limita a sedersi. Appoggia il sedere sul bordo del marciapiede, accanto a lei. Rimane muto a fare la guardia come un cane fedele al padrone. Ha sempre avuto quest’attitudine cavalleresca. Non importa cosa sta succedendo o a chi, Henka sente sempre il bisogno impellente di aiutare chi si trova nel giusto. Decide, dunque, di rimanere a vegliare su di lei finche non si decide a riprendersi. E’ seduto, con le braccia appoggiate sulle ginocchia. Rimane nuovamente incantato dalla luna. Un sorriso si dipinge sul suo volto, rendendolo molto meno minaccioso. Lei, intimorita, apre gli occhi. Lo vede, seduto a pochi centimetri da lei con il volto sorridente. E’ ancora spaventata da quel ragazzo misterioso, ma incomincia a capire che può fidarsi di lui. Smette di piangere e deglutisce, nel tentativo di dire qualcosa. Di ringraziarlo, di presentarsi. Non lo sa nemmeno lei. Rimane che Henka, sentendola, si volta verso di lei per attendere le sue parole. Hana apre la bocca per parlare, ma la sfortuna del ragazzo colpisce ancora. Una folata di vento improvvisa li investe, smuovendo i capelli del giovane. Il ciuffo nero corvino si alza, scoprendo completamente l’occhio sinistro. Lui, spaventato, spalanca gli occhi e rimane paralizzato. Hana, invece, non riesce a staccare gli occhi da quello che vede e prende a tremare visibilmente. Un occhio rosso. Uno spaventoso occhio rosso, apparentemente iniettato di sangue. Lo sguardo di uno spaventoso demone. Hana chiude gli occhi e grida. Le luci d’altre case nel vicinato si accendono. Qualcuno compare alla finestra, gridando. Altri, spaventati, pensano di imbracciare il telefono per chiamare una volante, ma alla fine nessuno lo fa. Hana, ricominciando a piangere, si allontana dal mostro come può. Lui, esterrefatto, non sa cosa dire. Rimane semplicemente ad osservare la scena a bocca aperta. La ragazza si alza e, voltandosi, scappa scomparendo nel nulla. Henka non tenta nemmeno di inseguirla, ancora paralizzato. Tende una mano verso di lei, come per fermarla, ma ormai è troppo lontana. Balbetta qualcosa.
<< A… a… aspetta. >>
Arreso, abbassa la mano. Si volta e prende a guardarsi le scarpe, triste. Si sistema, con malavoglia, il ciuffo. Rimane per qualche secondo fermo, lasciando che i pensieri scorrano liberi come un fiume in piena. Gli viene voglia di lasciarsi andare, ma sa che non può farlo. Ha perso tutto. Non ha nessuno che lo aspetta a casa, ne ha una casa. Sfogarsi, lasciarsi trasportare dalle emozioni significherebbe la sconfitta per lui. Se i sentimenti finissero per prendere il sopravvento, probabilmente la depressione lo coglierebbe e finirebbe per uccidersi. Preferendo non pensare a certe cose, deglutisce come per mandare giù quelle riflessioni e si alza. Con la mano sinistra afferra la tracolla della borsa e la poggia sulla spalla. Poi, ficcandosi la destra nella tasca, ne estrae una mappa rovinata.
“ Acc! Avrei almeno potuto chiederle se sapeva come arrivarci. Oggi è stata un'altra giornata sfortunata a quanto pare. Spero che le cose cambino, d’ora in poi.”
Poi, alzando lo sguardo verso la lunga strada poco illuminata, incomincia a camminare per scomparire nel buio.
Edited by Blecco. - 16/7/2009, 08:50