Fall Out Boy - Italia

Akame

« Older   Newer »
  Share  
Blecco.
CAT_IMG Posted on 7/5/2009, 12:38




Ok, stavolta la presentazione è corta. Ricordate la storia che scrivevo e poi ho smesso? Si ecco quella. Non aveva un cazzo di basi quindi mi era difficile seguire un filo logico, dunque ho sfruttato un'altra idea. Son ripartito da capo e ho scritto una cosa completamente diversa (non centra niente con l'altra storia) e, a mio parere, decisamente più bella. Ci ho messo mesi per finire di scrivere tutti i dettagli che mi servivano per la storia è mo è per buona parte pronta. Pronta da scrivere. E quindi ho incominciato oggi a scrivere quello che può essere il preludio. Corretto e tutto con word, ma se è scappato qualcosa avvisatemi. Spero che vi piaccia anche se, con solo questo, ci capirete poco o niente xD. La vera storia inizia tra poco! Lasciatemela scrivere però :buu:. Meno male che doveva essere corta la presentazione.


Sommario

Torna al sommario


Cap. 1



Un bruciore improvviso. Un’orrenda sensazione che parte dalle narici, dalla bocca e percorre tutto il corpo. Un fuoco che arde nei polmoni che, per la prima volta, iniziano a fare il loro dovere. Gli occhi ancora chiusi, troppo impauriti da quel nuovo mondo per osare una sbirciata. Le piccole mani contratte che si agitano nell’aria. Poi, finalmente, il pianto del bambino. Un urlo di disperazione. Per quanto incomprensibili, chiunque capisce quelle parole: “Voglio tornare indietro! Mamma, Mamma!”. Eppure, per nessuno è possibile tornare indietro. La vita è fatta così, bisogna affrontare i cambiamenti, che ci piacciono o no. E’ così che ogni nuovo nato viene consegnato tra le mani della madre, per farlo calmare come solo l’affetto materno sa fare. Allora perché quella nuova vita non può avere questo privilegio di molti? Una grossa mano, ruvida e callosa, gli solleva la testa. Un’altra mano, praticamente uguale, lo solleva per il sedere. Il corpo ancora ricoperto di quel liquido vischioso, che per tanto tempo è stato la sua casa, e da un altro, a lui sconosciuto. E’ caldo, ma gli da i brividi. E’ giusto che un neonato venga a contatto così presto con la verità della vita? E’ giusto che un pargolo scopra subito la terribile sensazione del sangue e del dolore? E’ giusto che una vita appena sbocciata sia la causa e testimonianza della morte di un’altra vita? Sangue, avrebbe imparato quella parola più tardi. Una complicazione, così dissero i medici. Tutte palle. Non uno, in quella stanza, avrebbe scommesso sulla sua salvezza. Complicazioni preannunciate. Una struttura ospedaliera troppo antiquata perché risponda efficacemente a tali esigenze. Eppure, il parto è stato fatto ugualmente li. Pazzia? No, egoismo. Quelle grosse mani, al bambino, danno una sensazione orribile. Una sensazione anche peggiore di quella che gli da il sangue che lo ricopre.

<< E’ proprio un bel bambino. Guarda com’è sano e forte. >>

Il neonato sente che sta scendendo velocemente. Una grossa ombra muscolosa lo segue nella discesa. L’uomo che lo sta sollevando si è piegato per porgerlo a qualcuno. Eppure, non c’è nessuna risposta da quella persona. Solo il braccio di un uomo che si frappone tra il pargolo e la sua naturale destinazione. Il medico si volta e con sguardo torvo, incomincia a parlare.

<< La prego signore. E’ in una situazione critica. Vada fuori della sala. >>

L’uomo, scocciato, si alza in tutta la sua imponenza e sovrasta il piccolo medico. In realtà non è molto alto, nella media diciamo, ma la sua corporatura è spaventosamente grande. Si gira di scatto, incurante dei pianti del neonato e si dirige verso la porta della sala operatoria. Un’infermiera entra di corsa, sbattendo la porta e trascinando con se un carrello pieno di attrezzi chirurgici. Ha il fiatone e sembra aver corso a perdifiato per tutto l’ospedale. Girando il carrello davanti a se, incomincia a correre, spingendolo, per raggiungere il dottore e i suoi aiutanti. Rischia di collidere con l’imponente uomo. Lui, non si preoccupa nemmeno e continua a camminare come nulla fosse. E’ la donna che, con uno sforzo sovraumano, riesce ad evitare lo scontro e portare gli attrezzi in sala operatoria in tempo. L’uomo, afferrando il maniglione della porta, ormai richiusa, la spalanca. L’infermiera, che può concedersi una pausa, si volta ad osservarlo. Non è infuriata con lui; semplicemente non riesce a capirlo. Come può essere così tranquillo e disinteressato quando sua moglie, che ha appena dato alla luce suo figlio, rischia di morire da un momento all’altro? L’uomo esce dalla stanza e lascia che la porta si richiuda dietro di se. Poi, si siede sulle sedie lì davanti e rimane in attesa. Impassibile. Nessun pensiero passa per la sua testa. Non è spaventato per la probabile morte della moglie. Non è felice per la nascita di suo figlio. A dire la verità, non ha nemmeno idea di come chiamarlo. Piegando la testa verso il neonato, lo osserva mentre continua a strillare. Fa una smorfia, quasi un sorriso felice, e lo solleva. Allunga le braccia verso il cielo, alzando il bambino a mezz’aria. Nel silenzio del corridoio dell’ospedale quasi deserto, la voce roca e profonda risuona nel pronunciare il nome del piccolo. Nello stesso momento la porta della sala operatoria si spalanca, sbattendo con forza. L’uomo abbassa il piccolo e lo porta al suo grembo, svelando il volto del dottore. Ha la testa bassa e lo sguardo triste.

<< Signore… Abbiamo fatto tutto ciò che era possibile… Mi spiace… >>

Il silenzio regna nuovamente nell’ospedale. Poi, alzandosi, l’uomo incomincia a parlare. Fa una smorfia, un sorriso simile a quello di prima. Una sensazione di malvagità circonda quell’espressione.

<< Hmpf… Capisco. >>

Poi, senza versare una lacrima, si volta. Incomincia a camminare lentamente per i corridoi vuoti, sotto lo sguardo incredulo. Il bambino continua a piangere e lui muove lentamente le braccia per cullarlo. Il pargolo smette di urlare e sembra calmarsi. Il dottore, stupito, richiude la porta dietro di se e ritorna in sala operatoria. L’infermiera di prima gli rivolge la parola.

<< Dottore, come l’ha presa? >>

L’uomo, ancora incredulo, deglutisce e aspetta qualche secondo prima di rispondere.

<< Credo… bene!? >>

Nella mente del dottore, quell’uomo deve avere qualcosa che non funziona. Intorno a lui c’è un’aura spaventosa, segno di una deviazione mentale alquanto pericolosa. Il piccolo, crescendo, ha incominciato a farsi la stessa idea del dottore su quello che è suo padre. Un essere definibile con una sola parola, malvagio. Non è solo lui. Tutti, in quel piccolo villaggio, sembrano avere qualche rotella fuori posto. Sempre a parlare di morti, combattimenti cruenti e assassini. C’è qualcosa che non va nell’educazione che sta ricevendo. Tutti dicono che è normale, che si vive così, ma qualcosa non torna al ragazzino. Ormai ha dieci anni. Non possono pretendere di fregarlo così. Eppure, molti dei suoi coetanei sono convinti che gli adulti dicono la verità. Quello stile di vita è normale. La morte è all’ordine del giorno. Assassini, questo sono destinati a diventare. Non c’è niente di strano in questo, oppure no? Il giovane non è l’unico a pensare che qualcosa non va in quel villaggio. I suoi amici, quattro per la precisione, sono d’accordo con lui. Decidono che è ora di cambiare le cose, non vogliono diventare come i loro coetanei. La loro percezione del mondo, difatti, è deviata ed ha un non so che di spaventoso. E’ ora di cambiare le cose, di farla pagare agli adulti. Di farla pagare a suo padre. Sa tutto quello che è successo il giorno della sua nascita, glielo ha detto il più grande dei cinque. E’ così che i ragazzini s’incominciano ad incontrare ogni giorno per allenarsi e studiare un piano per ribaltare la situazione, mascherando il tutto per un semplice gioco d’infanzia. Ringraziano i loro genitori solo per quello. Per avergli insegnato a mentire, a creare delle facciate e a tramare nel buio. Quegli insegnamenti, ben presto, gli si sarebbero ritorti contro. E’ così che, cinque anni dopo, accadono quegli avvenimenti. Esiste un giorno, ogni anno, in cui il villaggio fa una specie di festa. Quella tradizione è barbarica e degna del comportamento dei suoi abitanti. Tutti i quindicenni sono obbligati a partecipare ad una cerimonia in cui viene consegnato loro un pugnale. Con quell’arma, dovranno uscire dal villaggio e uccidere una persona. Una qualsiasi va bene, basta che portano indietro una prova della loro opera. I più orgogliosi, addirittura, sono tornati indietro con il cadavere completo della loro vittima. Un’indecenza. Una tradizione assolutamente schifosa. Questo è quello che pensano i cinque ragazzini. Quest’anno è anche la volta del giovane. Quest’anno è anche il giorno della ribellione. Hanno architettato per anni il loro piano e sono pronti a metterlo in atto. Così, inizia la cerimonia. Uno dopo l’altro, i giovani e le giovani del villaggio ricevono il loro pugnale, tra gli applausi dei genitori. Molti sono felici, ormai totalmente soggiogati da quello stile di vita deviato. Lui, invece, brucia di rabbia. Ogni volta che la fila si fa avanti, si avvicina al suo più grande odio. In piedi, alla destra del capo villaggio, c’è suo padre. Lo osserva con occhi pieni di malvagità e con quel suo solito sorrisetto. Lui ricambia con occhi pieni d’odio. Sicuramente il vecchio sa cosa pensa di lui, ma a nessuno dei due importa. Ognuno va per la sua strada con lo scopo di soddisfare i propri obiettivi. Poi, arriva il suo turno. Davanti a lui il vecchio capo villaggio. Indossa il tipico Kimono da cerimonia. I disegni intessuti raffigurano delle scene cruente a cui ormai è abituato. Il vecchio gli porge il pugnale, appoggiato sulle sue mani. Il ragazzo rimane ad osservarlo, in silenzio, per qualche secondo. Nella sua mente sta ripassando il piano creato con impegno in quegli anni. Poi, la voce roca del padre lo interrompe.

<< Forza… Tocca ancora a molti altri dopo di te. >>

I loro sguardi s’incrociano. La sua mente si riempie di nient’altro che odio. Rivede ancora una volta, nella sua mente, la scena di sua madre che muore. Non sogna nient’altro da quel giorno in cui ha giurato vendetta, da quel giorno in cui ha scoperto la verità. Suo padre sapeva che non avrebbe avuto speranze nell’ospedale del villaggio, era troppo antiquato. Sarebbe bastato andare in un qualsiasi ospedale della città per salvare sua madre. Questo, però, avrebbe significato una cosa. L’uomo li avrebbe dovuti seguire. Niente di strano, ma se avesse messo piedi in città, sarebbe stato sicuramente riconosciuto e arrestato in poco tempo. E così ha deciso per lei, com’è solito fare anche con il suo unico figlio. Ha deciso di rimanere nel villaggio. L’unica cosa che gli premeva, dopotutto, era ottenere un erede. La rabbia prende il sopravvento sul ragazzino. Nulla ha più importanza. Il piano fatto con gli amici non era destinato a fallire. Non era nemmeno destinato ad avvenire. Fin dall’inizio sapeva che non avrebbe resistito al desiderio di attaccare quell’uomo. Afferra il pugnale per l’impugnatura. Le mani callose, a causa dei continui allenamenti, sono abituate a quella sensazione. Stringe l’impugnatura con forza nella sua destra e, spostando solamente gli occhi, sferra il suo colpo. Un fendente dalla velocità impressionante. Un attacco imprevedibile, che il padre non può fare altro che subire. La punta della lama penetra solo per qualche centimetro sopra l’ombelico. Di quell’attacco non sarebbe rimasto nient’altro che una cicatrice. Ha fallito nella sua missione. Non è riuscito a vendicare la madre. Non è riuscito ad uccidere quell’uomo spregevole. La ragazza che è dopo di lui nella fila, salta indietro urlando. Tutti i presenti alla cerimonia si concentrano sulla scena, allibiti. Le urla si sovrappongono e qualcuno estrae anche delle armi. Il ragazzino, però, non è affatto preoccupato. Ha altri pensieri per la testa.

“Non ci sono riuscito. Perché non riesco ad affondare mia lama nella sua carne? Ho rinunciato al piano per la mia vendetta personale. Perché non riesco ad ucciderlo? Dannazione!”

L’uomo fa un passo indietro, rispondendo solamente con una smorfia a quella ferita. Si porta una mano al ventre sanguinante e rimane ad osservarlo, con sguardo gelido e pieno d’odio. Non sembra arrabbiato, più che altro sembra deluso. Deluso di avere un figlio tanto debole? Può essere. Dopotutto, per lui conta solo la forza. Il ragazzo cerca di avvicinarsi a lui, ma si rende conto di essere bloccato. Abbassa lo sguardo e vede una mano sul suo ventre. Il capo villaggio, il più forte dei combattenti del paesino, lo ha bloccato. La vecchia mano ossuta lo ha fermato senza che lui nemmeno se ne accorgesse. Gli ha impedito di uccidere suo padre. Una cosa che non può perdonargli, ma che non può nemmeno fargli pagare. Un semplice ragazzino non ha speranze contro un mostro del combattimento come il vecchio capo. Il braccio, pur non essendo all’antico splendore, si muove con forza in avanti scaraventando il ragazzo in aria. Vola per qualche metro e atterra di schiena. La schiena, il sedere e le braccia impattano contro il terreno, provocandogli parecchi lividi, ma non si lascia scappare di mano l’unica arma che possiede. Alcuni uomini escono dal pubblico, brandendo delle Katane e agitandole. Tentano di accerchiarlo per colpirlo. I suoi amici, nascosti tra il pubblico, però, si frappongono tra loro e il ragazzo per proteggerlo. Brandiscono diverse armi, pronti ad usarle per difenderlo. Nel vederli, gli occhi del ragazzo si riempiono di lacrime. Nonostante lui li abbia traditi, preferendo la vendetta personale ad un piano creato con gran fatica, sono pronti a brandire le loro armi in difesa dell’amico. All’inizio è commosso. Vorrebbe dire qualcosa, ma non gli viene in mente niente. Poi, il più grande dei quattro, si volta e alza il pollice, come per dire “E’ tutto ok”. Il ragazzo si limita a fare un sorriso. In questo caso, basta e avanza per rispondere. Gli uomini armati, confusi dalla situazione, incominciano ad innervosirsi. Uno di loro incomincia a parlare.

<< Ragazzini, levatevi dai piedi. Non ho idea di quello che sta succedendo, ma non la farò passare liscia a chi ha osato attaccare il figlio del capo clan. >>

Il più vecchio dei quattro, ancora una volta, fa da portavoce.

<< Mi dispiace, ma non possiamo proprio permetterlo. Se volete attaccare un nostro amico, dovete prima passare sui nostri cadaveri. >>

L’uomo fa una smorfia di dissenso. Poi, solleva la sua arma, pronto a colpirlo. Una voce tonante, improvvisamente, rompe il silenzio, spaventando tutti i presenti. Tutti si voltano verso il vecchio capo villaggio, che si è alzato in piedi. Con lo sguardo fissa duramente il ragazzo. Quest'ultimo, nel frattempo, si rialza da terra.

<< Fermi! Non provate a sferrare nemmeno un colpo. Questo è un ordine. Nemmeno io riesco a capire questa rivolta, ma la faccenda si è fatta una questione personale. Nessuno può attaccare a tradimento mio figlio senza ricevere una mia personale punizione. >>

Poi, rivolgendosi al giovane, riprende a parlare.

<< Non importa chi eri… ragazzino. Ora, sei solamente un estraneo. Questa è solo una delle pene per quest’affronto. Le prossime arriveranno presto, ma prima... devo farti passare la voglia di combattere a quanto pare. >>

Il ragazzo è in piedi, di fronte al vecchio, e brandisce a due mani il pugnale. Tiene la lama davanti a se, pronto a difendersi dai potenti attacchi dell’anziano. I suoi amici sono ancora intorno a lui, a fargli scudo dalla folla minacciosa. Nonostante il capo del villaggio abbia ordinato di stare fermi, non sono sicuri che quella gente ascolterà le sue parole. In quel momento, il giovane nota che suo padre non si trova più dov’era prima. Deve strizzare gli occhi per poterlo riconoscere. Ormai, non è nient’altro che un puntino che si muove in lontananza. Dopo essere stato ferito, se l’è data a gambe senza troppe cerimonie. Ancora una volta, preferisce uscirne indenne piuttosto che rischiare, condannando le persone a lui più vicine.

“Bastardo! Ho mandato tutto a puttane per poterlo uccidere e, oltre a salvarsi per pura fortuna, ora scappa. Ora, mi ritrovo davanti il guerriero più forte di tutto il paese. Non ho speranza di uscirne vivo. I miei amici si sono condannati a morte cercandomi di aiutare. Tutto quello che abbiamo fatto in questi cinque anni è andato in fumo. Questo villaggio non cambierà mai. No!”

Trasportato dalla furia, il suo cuore incomincia a battere all’impazzata. Nella sua mente una sola idea, un solo pensiero: vendetta. Vendetta contro quell’uomo spregevole che dovrebbe essere suo padre. Vendetta contro quello stupido villaggio che non capisce di essere manipolato. Vendetta contro quel vecchio marionettista che muove le fila di tutto il paese. Vendetta contro quel guerriero che gli impedisce di raggiungere la sua preda. I battiti del suo cuore aumentano a livelli enormi. Sente il sangue fluire nel suo corpo a ritmi impressionanti. Il suo respiro accelera, mentre si fa prendere dalla rabbia. Una strana sensazione gli prende buona parte del corpo. Sente l’occhio sinistro pulsare come se stesse scoppiando. Tutto il corpo è in quello stato. Poi, tutto si rilassa. Quella strana sensazione scompare e così anche i battiti rallentano. L’unica cosa che rimane di quei momenti è una furia irrefrenabile. Il vecchio, sbuffando, allunga il braccio destro in avanti e gli indica, con la mano, di avvicinarsi. Un chiaro gesto di sfida, a cui il ragazzo non sa rifiutare. Non in quello stato. Incurante della sicura sconfitta, si lancia in avanti. Il suo scatto è rapido, molto rapido, tanto da lasciare stupito anche lui stesso.

“Uh? Mi sono allenato per anni in vista di questo momento, ma non immaginavo di aver raggiunto un tale livello.”

Da importanza a questo pensiero per poco più di un attimo, poi, la sua mente torna a concentrarsi sul desiderio di vendetta. Staccando la mano sinistra dall’impugnatura, lascia scivolare il pugnale nella destra. Porta il braccio indietro così da raggiungere, con la mano, il fianco. La mancina, invece, viene tenuta davanti a se, con l’avambraccio piegato davanti al suo volto a fare da scudo. Il vecchio, completamente disarmato, non sembra essere preoccupato della situazione. Tende la destra in avanti, chiudendo la sua morsa intorno al polso della mano sinistra del ragazzo. Con un movimento forte, ma fluido, sposta il braccio del giovane e lo porta all’esterno, annullando la sua funzione di scudo. In quello stato di furia e a causa della foga della battaglia, il ragazzino non riesce ad avere un pensiero lineare. Riesce solamente a sentire un brivido di terrore che gli risale la schiena. Non può competere con un simile combattente. L’istinto omicida, però, non vuole saperne di arrendersi e lo spinge avanti nel suo folle piano. Sferra un veloce fendente orizzontale, diretto da destra a sinistra, mirando l’uomo al torace. L’anziano, calmo come non mai, rimane ad osservarlo negli occhi per qualche frazione di secondo. La bocca incurvata in un’espressione triste e gli occhi socchiusi. Il ragazzo, invece, è dominato da un’espressione furibonda. Le ciglia aggrottate, gli occhi iniettati di sangue e i denti digrignati gli conferiscono un aspetto ferino. L’uomo contro la bestia. La saggezza contro la furia. In questo scontro di stereotipi, sembra che il giovane non abbia possibilità di vittoria. Portando avanti la mano destra, tesa, la fa scorrere sul lato della lama del pugnale con il palmo. Poi, con un unico gesto, spinge verso l’esterno, disperdendo il colpo del ragazzo verso il basso e destabilizzandolo. Il giovane rischia di cadere in avanti, ma i riflessi potenziati dalla furia lo salvano. Sposta in avanti il piede destro e lo flette leggermente per evitare di cadere. Poi, ruotando il busto, non aspetta altro e sferra un altro colpo. Questa volta è una stoccata, mirata al cuore, con la punta del pugnale. La velocità, questa volta, è decisamente più alta della prima volta. Anche il vecchio ne è stupito. Le sue sopracciglia si alzano sulla fronte, mostrando una serie di rughe e la bocca si apre leggermente. Poi, la lama penetra la sua carne. La punta del pugnale scompare attraverso il Kimono. Centimetro dopo centimetro, la lama passa attraverso il Kimono per infilzare la carne dell’anziano. Il rumore della carne che si taglia è appena percettibile, ma il ragazzo sembra riuscire a percepirlo. Il filo freddo del pugnale che perfora la carne, schiva una costola e s’infilza nel cuore del capo villaggio. Il giovane stringe i denti tanto da farseli sanguinare. Gli occhi si spalancano e sono iniettati di sangue ancor più di prima. Sembra quasi provare gusto nel farlo. Una tenebra attanaglia la sua mente. Riesce solo a pensare ad uccidere, uccidere, uccidere. Al limite della pazzia, la mente del ragazzo riesce a liberarsi e molla di scatto il pugnale. Alza la testa al cielo, con la bocca spalancata, per urlare. E’ un urlo di terrore. Un rauco lamento di chi si è reso conto di cosa ha fatto. Lui non voleva uccidere nessuno. Lui non voleva essere un assassino. Lui non voleva essere come suo padre. Eppure, lo è diventato. Cade sulle ginocchia. Dai suoi occhi sgorgano fiumi di lacrime. I rivoli ricoprono tutte le sue guance e non accennano a smettere. La bocca gli si muove da sola, per reazione a quella sensazione. Trema e non riesce a smettere.

“Dio. Cosa ho fatto. Io… sono diventato esattamente quello che non volevo. Io, ho ucciso un uomo. Non solo un uomo… Io ho ucciso mio…”

Un dolore lancinante lo prende al braccio destro. Incurante, vista la situazione in cui versa, si limita a guardare. Una mano. Una vecchia mano ossuta gli sta stringendo l’avambraccio. Le dita sono pressate nella carne con tanta forza da provocargli dei lividi. Come ha potuto quell’uomo, dalla presa d’acciaio, morire per mano di un ragazzino? L’anziano, sdraiato a terra con una mano sul cuore, alza la testa e lo guarda in faccia. Il volto contratto per gli spasmi di dolore. Ad ogni respiro le sue forze sembrano sparire e la morte avvicinarsi pericolosamente. Le guance si contraggono continuamente nel vano tentativo di prendere un po’ di respiro. Striscia, con le forze che gli sono rimaste, verso il ragazzo. Il giovane, terrorizzato nel vedere quella scena, smette di piangere. Nemmeno le lacrime riescono più a scendergli. E’ completamente paralizzato dal terrore. Occhi e bocca spalancati, rimane pietrificato mentre l’uomo gli si avvicina. Le mani decrepite gli si appoggiano sulla testa e, facendo sforzo sulle braccia, si solleva. Avvicina il suo volto talmente tanto che il ragazzino è costretto ad incrociare gli occhi per osservarlo. Poi, dopo aver alitato una zaffata di morte, incomincia a parlare.

<< S… Sei… diventato… un uomo… >>

Poi, tenta un ultimo respiro. Tenta di pronunciare il suo nome, ma i polmoni non funzionano più. Uno spaventoso rantolino si ripete per un paio di volte, poi, gli occhi diventano bianchi e la presa scompare. Ricade all’indietro, ormai defunto. Il giovane è in ginocchio, davanti a lui, e ha ripreso a piangere e tremare. La folla che ha visto la scena è allibita. C’è chi è svenuto, chi ha vomitato e chi ha sopportato il tutto. I quattro ragazzi, capendo la situazione, si fondano verso l’amico. Il più grande dei quattro lo carica sulle sue spalle, ancora tremante, e parla agli amici.

<< Dobbiamo andarcene! Non abbiamo più speranze di riuscire nel piano! Separiamoci e pensate solamente a salvare le vostre vite! >>

L’uomo che voleva ingaggiare un combattimento con loro, cade sulle ginocchia, disperato. Balbetta continuamente il nome del capo villaggio, senza riuscire ad oltrepassare la prima lettera. I quattro ragazzi, approfittando della situazione fuggono. Corrono via, ma nessuno sembra inseguirli. I paesani circondano il vecchio capo villaggio nel vano tentativo di aiutarlo. Il più grande degli amici del ragazzino corre come un fulmine, nonostante il peso sulle spalle, e cerca di raggiungere la foresta al più presto. Poi, una voce flebile lo costringe a fermarsi.

<< Ti prego. Smettila di correre. Non posso fuggire ora. Ormai ho fatto quel che ho fatto, devo almeno compiere la mia vendetta. >>

Il ragazzino, seppur visibilmente provato, vuole finire il suo lavoro. Aggrottando le ciglia e scuotendo la testa in segno di dissenso, l’amico gli risponde.

<< Non ci pensare nemmeno. Non ti permetterò di commettere lo stesso errore due volte. >>

Il giovane incomincia ad agitarsi.

<< Lasciami andare! >>

Tirando una testata all’amico, riesce a scendere dalle sue spalle. Approfittando del suo momento di confusione, corre via verso il villaggio.

<< Non provare a seguirmi! Fuggi e cerca di cambiare la tua vita. Addio! >>

Il suo volto è segnato dalla sofferenza di quei momenti. Nemmeno il sorriso che fa all’amico potrebbe funzionare come facciata. Quest’ultimo, dopo essersi ripreso dalla botta, lo incomincia inseguire. L’ha perso di vista, ma poco importa, sa benissimo dove è diretto. Dopo qualche minuto di corsa in mezzo al villaggio deserto, a causa della cerimonia, raggiunge la casa del ragazzo. Ha il fiatone per la lunga corsa, ma non può permettersi un momento di riposo. Ogni secondo di ritardo potrebbe essere fatale per l’amico. Tende la mano destra in avanti e la stringe la presa intorno alla maniglia. Quando apre la porta, trova il ragazzo, di spalle, che sta sistemando il fodero di una spada alla cintura. Stranito, incomincia a parlargli.

<< Che cosa è successo? E quella spada da dove salta fuori? >>

Il giovane, rimanendo voltato, abbassa la testa e lascia ricadere le braccia sui fianchi.

<< Un regalo poco gradito. Non era in casa. Mi ha lasciato un biglietto attaccato a questa spada. Ho fatto il suo gioco. Lui voleva che uccidessi il capo villaggio. >>

Voltandosi, mostra il volto ricoperto di lacrime e riprende a parlare.

<< Volevo ribellarmi a lui. Volevo infrangere queste stupide regole. Dopo tutto l’aiuto che mi avete dato, ho fatto di testa mia. E’ riuscito ad usarmi. Ti prego. Andiamocene da questo posto. >>

Il singhiozzo rende le sue parole quasi incomprensibili. L’amico fa per avvicinarsi. Poi, si ferma. Spalanca gli occhi, come se avesse visto un fantasma. Trema e balbetta. Il ragazzo, non capendo, smette di piangere e chiede spiegazioni.

<< C’è qualcosa che non va? >>

L’amico alza il braccio ad indicare oltre lui e cerca di balbettare qualcosa.

<< L… lo… specchio. >>

Il ragazzo, incuriosito, aggrotta le ciglia e si volta. Dietro di lui c’è uno specchio alto quasi quanto l’intera parete. Alza una mano all’altezza del volto, a mezz’aria, e incomincia anche lui a tremare.

<< Cosa diavolo !? >>


Torna al sommario


Cap. 2


[Giappone, Anno 20xx]

“Un brutto sogno. Nient’altro che il solito incubo.”

Il ragazzo, ancora assonnato, sbadiglia e stiracchia le braccia. Non si cura di coprirsi la bocca. Non c’è nessuno nella cabina con lui. Voltandosi, si cerca di specchiare nel finestrino del treno. La pelle chiara è visibilmente stressata dal viaggio. E’ rovinata e, a quanto pare, non vede un goccio d’acqua da almeno un giorno. Le labbra inarcate tendono le estremità verso il basso, in un’espressione ebete. Sotto gli occhi, due grosse occhiaie si fanno strada sul suo volto. Dormire seduto sul sedile di un treno, certamente, non è la postazione più comoda a questo mondo. L’unico occhio scoperto ha uno sguardo perso e ancora assorto nei propri pensieri notturni. I capelli neri sono disordinati e solo il grosso ciuffo che copre l’occhio sinistro sembra essere rimasto intatto. Sbadiglia un’altra volta, questa volta portandosi la mano davanti alla bocca. Da un altro sguardo al finestrino, questa volta all’esterno. Il paesaggio cambia velocemente, ma sembra che il treno sia ancora in mezzo alle campagne.

“Questa volta è durato molto di più. Non sono mai arrivato fino a quel punto. Mi domando se sia la fine o c’è altro.”

Il rumore di un tacco sul pavimento della cabina attira la sua attenzione. Una ragazza, a prima vista sulla ventina, entra nel piccolo locale. Il giovane, istintivamente, la osserva negli occhi. Lei, intimidita, arrossisce.

<< S… scusami. Quei posti sono occupati? >>

Lui, capendo d’averla intimorita con quello sguardo da prima colazione, fa un sorriso e le risponde.

<< No, affatto. Il mio nome è Henka Gansaku, piacere di conoscerti. >>

Lei entra nella cabina e si siede sul sedile in fronte al ragazzo, lasciando scivolare una grossa borsa sul sedile a fianco a lei.

<< Io, invece, mi chiamo Nao Ayasegawa. >>

La ragazza sorride, sollevata rispetto a prima. I due, dopo un inizio discorso, sembrano finire in una situazione di stallo. Si osservano l’un l’altro negli occhi, muti. Poi, Henka dice la prima cosa che gli viene in mente.

<< Dove sei diretta di bello? >>

Lei, un po’ confusa per la domanda, aspetta qualche secondo, prima di rispondere. Capendo che dietro di essa non si cela nessuna malizia, decide di rispondere.

<< Vado a Wan no Toshi per ricominciare l’università. Tu, invece, dove sei diretto? >>

Il ragazzo distoglie lo sguardo e risponde, a bassa voce.

<< Anche io vado a Wan no Toshi, ma per scopi molto diversi. In un certo senso posso definirlo un viaggio di piacere, oppure un dovere. >>

La ragazza, vedendo una triste luce nel suo unico occhio scoperto, evita di proseguire il discorso, lasciando Henka nei suoi pensieri.

“Wan no Toshi. Una metropoli conosciuta a livello mondiale. Un centro ricco d’uffici, negozi e qualsiasi tipo di tecnologia avanzata. Servizi di tutti i tipi, ogni sogno qui diventa realtà. Diceva così l’opuscolo, no? Bah, non m’importa. Può avere tutte le spiagge dorate del mondo, un’industria seconda solo a Tokyo, ma non è per quello che m’interessa. Una facciata. Nient’altro che una facciata. Se solo i suoi abitanti sapessero cosa si nasconde nelle sue strade.”

Il treno rallenta progressivamente. Le ruote metalliche stridono sulle rotaie, svegliando Henka dai suoi pensieri. Una voce vagamente metallica, dall’altoparlante, manda un messaggio che si ripete in continuazione.

<< Wan no Toshi, stazione di Wan no Toshi. >>

Henka viene improvvisamente risvegliato dai suoi enigmatici pensieri. Al suono dell’altoparlante, spalanca gli occhi solo per un attimo. Si volta verso Nao che, nel frattempo, ha spostato i suoi occhi sulla borsa. Raccoglie il suo unico bagaglio e si alza in piedi, senza dire nulla. Il ragazzo, capendo di essere stato scortese, cerca di farsi perdonare. Si alza a sua volta dal sedile e le parla.

<< Scusa, la mia reazione era del tutto inopportuna. Dopotutto, sono stato io ad introdurre l’argomento. Per farmi perdonare, credo che devo almeno darti una mano. >>

Lei, sentendolo parlare, si volta verso di lui. E’ in quel momento che lui prende la valigia dalle sue mani.

<< Forza, scendiamo. Te la porto fino a dove devi andare, così non fai fatica. >>

La ragazza gli risponde con un sorriso e lo ringrazia. Henka, girandosi verso il seggiolino affianco al suo, afferra per la tracolla un grosso borsone nero. La sua valigia. Quella grossa sacca tubolare, lunga poco più di un metro, contiene tutti i suoi averi. In un certo senso, si può dire che è casa sua, poiché una casa in mattoni e cemento non la ha. Avvicina il braccio alla spalla e, con un gesto veloce, vi appoggia la tracolla. Tenendola ferma con la mano, tiene la sua borsa verticale mentre, con l’altra mano, solleva la valigia di Nao. La ragazza esce dalla cabina e, mettendosi in coda, attende di scendere dal treno. Il ragazzo la segue a ruota, riuscendo a raggiungere la stazione solo dieci minuti dopo. Wan no Toshi è una città molto trafficata e caotica. Code come quelle sono nulla. I due, fortunatamente, riescono a non separarsi. Usciti dalla folla di gente, Henka tenta di parlarle.

<< Nao, allora, dove devi andare? >>

Lei accenna una risposta, ma s’interrompe. Incomincia a correre e, voltandosi, gli urla contro.

<< Presto Henka! Seguimi! >>

Sbigottito, il ragazzo rimane fermo per qualche secondo. Quando si rende conto che la direzione della ragazza è un bus in partenza, però, incomincia a correre a perdifiato. L’autista del bus, capendo la situazione, tarda a partire. I due riescono così a raggiungere la loro meta. Nao è ferma davanti alla porta del mezzo, ansimando per la corsa. Henka, davanti a lei, attende che si riprende per poterla salutare. La ragazza, alzando gli occhi, squadra quel ragazzo che, probabilmente, non avrebbe più rivisto. E’ alto qualche centimetro in più di lei, intorno al metro e settanta. La carnagione chiara e il fisico slanciato. Due braccia forti, dalla muscolatura ben definita. Le mani grandi che stringono le due valigie come se pesassero poco più di una piuma. Il volto delicato, ma allo stesso tempo dotato di un fascino rude. L’unico occhio che riesce a scorgere, il destro, è di un bel color nocciola scuro. Un marrone scurissimo tanto che, senza la luce di quella giornata, potrebbe sembrare nero. I lunghi capelli nero corvino, disordinati, gli arrivano poco sopra le spalle. L’occhio sinistro è coperto da un grosso ciuffo che lo nasconde completamente. Indossa un paio di jeans neri, stretti e a vita alta. Una cintura nera, in pelle e coperta da piccole borchie, li ferma all’altezza della vita. Ai piedi indossa dei grossi stivali neri con la punta larga. La maglia nera, anonima, gli calza a pennello lasciando leggermente risaltare i pettorali. Sopra di essa indossa un giaccone di pelle nera, sempre sbottonato e con il colletto alzato. A prima vista, può sembrare una persona fredda e scontrosa, ma non è affatto così. In quei pochi minuti, si è dimostrato una persona simpatica e gentile. Lei, smettendo di ansimare, fa per salutarlo.

<< Henka, mi hai veramente aiutato. Senza di te avrei sicuramente perso il pullman. Ti ringrazio… e spero di ritrovarti uno di questi giorni. >>

Tende il braccio in avanti, afferrando la maniglia della valigia. Lui, lascia la presa e la saluta con la mano libera.

<< Nessun problema Nao. Sono felice di averti conosciuto. Ci vediamo! >>

La ragazza, sorridendo, sale sull’autobus. Mentre lo saluta con la mano, le porte del mezzo si chiudono. Henka aspetta che il bus si allontani, poi, si gira e si guarda intorno. Dopo aver trovato un’agenzia turistica, fa per raggiungerla. Mentre cammina, gli viene da ripensare a quell’incontro.

“ Faccio schifo come casanova. Avrei dovuto salire su quell’autobus. Mi sarei perso, ma chi se ne importa. Sarebbe stata una scusa valida per farmi ospitare da lei.”

Come un ragazzino, incominciare a ridacchiare tra sé e sé mentre immagina scene vietate ai minori. Tornando serio, cerca di focalizzarsi sul suo vero obiettivo.

“ Ho bisogno di trovare un alloggio. Quell’agenzia sarà sicuramente di grande aiuto. Piuttosto, non so in che parte della città sceglierlo. Credo che andrò semplicemente al più conveniente. Purtroppo, trovare la sede del Kazoku no Kumiai non sarà facile. Saranno ben nascosti per non essere stati trovati per centinaia d’anni. L’unione dei clan è un’organizzazione interclan che esiste fin dall’epoca dei grandi signori della guerra.”

Nel frattempo, entra nell’agenzia e prende diversi volantini. Poi, uscendo, si siede su una panchina per sfogliarli.

“F creata poiché, con l’importanza che alcuni di loro stavano guadagnando, urgeva un ordinamento per evitare di scatenare guerre tra loro, che avrebbero causato innumerevoli morti. I mercenari si unirono dunque sotto questa grande unione che li rappresentava tutti, anche i più piccoli. I vertici pensanti di quest’organizzazione erano i diciotto capi clan dei clan più forti. La loro sede, in seguito all’unificazione del Giappone, è nascosta da qualche parte in questa città e io la troverò.”

Dopo aver scelto il suo futuro alloggio, si alza e si volta verso il centro.

<< Credo che andrò a farmi un giretto già che sono qui. >>


Torna al sommario


Cap. 3



Ormai, si è fatta sera. Il sole rosso fuoco cala verso terra, scomparendo dietro la miriade di grattacieli che dominano la città. Henka, stanco, è seduto su una panchina. Le braccia, tirate indietro, si appoggiano sullo schienale dell’oggetto. Le gambe sono distese in avanti, mentre agita i piedi insistentemente.

“ Ormai è arrivato il tramonto. Come si chiamava quel dormitorio che avevo visto sul volantino?”

Sposta la mano e la infila dentro una tasca della giacca. Scava tra le cianfrusaglie per qualche secondo. Poi afferra quella che, al tatto, sembra carta plastificata. Senza indugio, estrae l’oggetto e se lo porta davanti. È un piccolo volantino ripiegato su se stesso in almeno quattro parti. Spostando anche l’altra mano, lo spiega e lo sfoglia. Legge con svogliatezza il testo, per saltare direttamente alle informazioni che gli interessano.

“ Come raggiungerci... A quanto pare, dalla stazione, parte un autobus che porta fino a pochi isolati da li. Parte ogni mezz’ora, da davanti alla stazione. Comodo. Direi che è ora di andare a vedere di trovarmi un posto in cui dormire.”

Ripiega il foglietto e lo rimette nella tasca. Poggia le mani sul sedile della panchina e le usa come leva per alzarsi. Una volta a mezz’aria, sì da una spinta con le gambe per portarsi in posizione eretta. Agita per un attimo le mani, come per trovare l’equilibrio perso durante quella pausa troppo lunga e scomoda. Sbadiglia. Poi si stiracchia facendo poco caso alle occhiate stranite dei passanti. E’ abituato a fare quell’effetto di curiosità misto paura alla gente. Solitamente, i suoi vestiti, la sua espressione fredda non lo fa sembrare la persona più affidabile di questo mondo. S’infila le mani in tasca e, con faccia imbronciata, si dirige verso il pullman.

In uno dei quartieri commerciali di Wan no Toshi esterni al centro cittadino, c’è un gran via vai di gente. Gruppi di persone di qualsiasi età si danno il cambio in svariati locali e negozi. Ci sono gli impiegati che, tornati dal lavoro, si trovano con gli amici per divertirsi un po’. Ci sono gli alunni delle scuole che si trovano il pomeriggio per farsi un giro. Insomma. Una folla eterogenea di cui sarebbe impossibile descrivere ogni insieme. Da un negozio d’abbigliamento, escono un gruppo di ragazze ancora in uniforme scolastica. Le quattro ridono e scherzano, divertite da quel pomeriggio passato all’insegna dello shopping. Una di loro, scatta in avanti e fa da blocco al passaggio delle altre. E’ molto alta e, per parlare ad una di loro, piega la schiena in avanti avvicinandosi pericolosamente. La coda di cavallo, nero corvino come il resto dei capelli, scivola verso il basso, trascinata dalla forza della gravità. Ha diciotto anni e frequenta la stessa classe dell’amica. Guardando l’altra con i suoi occhi verdi, le incomincia a parlare.

“ Allora Hana, ora mi devi dire la verità. Siamo tutte e quattro molto amiche da quando facciamo parte del club di nuoto. I vestiti che hai preso sono molto carini. Su chi hai intenzione di far colpo?”

Hana, a quelle parole, diventa completamente rossa e distoglie lo sguardo. Lei, al contrario dell’amica, è molto minuta. Non supera sicuramente il metro e sessantacinque. Ha dei capelli biondissimi, quasi dorati, perfettamente naturali. Gli occhi color ghiaccio sono penetranti e risplendono di una luce di timidezza. Ha un seno poco sviluppato che le conferisce il tipico fisico da “lolita”. Il suo aspetto è più unico che raro in un paese come il Giappone. Hana, difatti, è per metà Giapponese e per metà Svedese. Sua madre si trasferì in Giappone molti anni prima, dopo aver conosciuto suo padre in un viaggio di piacere ed essersi innamorati perdutamente l’uno dell’altro. Il suo viso è ciò che la fa rassomigliare di più alla madre. Non ha né occhi a mandorla, né una qualsiasi altra caratteristica che può farla assomigliare anche lontanamente ad una delle sue amiche. Il suo aspetto, tipicamente nordico, unito alla delicatezza del suo piccolo corpo la rende una ragazza molto popolare nella loro scuola. Lei, però, è molto timida e difficilmente riesce a sfruttare questa popolarità, rimanendo più volte soggiogata. Questo è uno di quei casi. Yui, sua amica da parecchi anni, è un’innata pettegola. Non lo fa con cattiveria. Le piace semplicemente sapere tutto di tutti. Hana, non sapendo cosa rispondere a quella domanda così improvvisa, cerca di nascondersi abbassando gli occhi e chiudendoli nella speranza che l’amica si arrenda. In realtà non le piace nessuno, ma sa che Yui non sarebbe soddisfatta di una risposta simile. Miho, abbracciandola, ruota frapponendosi tra le due.

<< Yui, finiscila di fare così con Hana. Lo sai quanto è timida. Potrebbe anche scoppiare a piangere se continui a pressarla. >>

La ragazza si allontana leggermente facendo un muto gesto di scuse. Miho ha la stessa età delle altre due ragazze, ma non frequenta la loro stessa classe. Si conoscono per mezzo del club di nuoto e ormai sono diventate grandi amiche. Miho è alta quanto Hana ed ha un gran seno, il che la fa una delle ragazze più popolari di tutta la scuola. A questo si aggiunge il suo viso delicato, i lunghi capelli ramati e la sua innata tenerezza. C’è solo un motivo per cui questa ragazza dagli occhi color nocciola non trova un ragazzo, non le interessano. Miho, difatti, è sempre cresciuta in una famiglia di soli uomini, a causa dei continui viaggi lavorativi della madre e dei tre fratelli maggiori, che l’ha portata a vedere l’uomo sotto una diversa. Cresciuta, nonostante tutto, molto femminile ha incominciato a provare interesse per le appartenenti del suo stesso sesso, probabilmente trascinata dall’esempio fornitole dai suoi fratelli. Hana è una delle ragazze che preferisce in tutta la scuola e, sapendo di non avere speranze con lei, si limita a proteggerla e starle il più vicino possibile. Certe volte si lascia trasportare, ma riesce sempre a fermarsi prima di far qualcosa di sbagliato. Le quattro incominciano a camminare per le vie trafficate del quartiere. Poi, uscite dalla folla, l’ultima di loro fa per salutarle. E’ la più piccola delle quattro, con i suoi sedici anni. Poco più alta di Hana e Miho, con i capelli arancio e gli occhi di un castano chiaro, che li fa sembrare dorati. Ha un seno nella media, ma comunque più grande di quello di Hana. Sempre in movimento e piena d’energia è una delle migliori nel loro club di nuoto. Le amiche l’hanno riaccompagnata fin davanti a casa, per evitare di farle fare strada da sola. Le quattro si salutano velocemente e si separano. Hana, da sola, va verso la fermata di un bus per tornare a casa.

Henka è seduto in uno dei sedili in fondo al pullman. Arrivato alla stazione, è riuscito a prenderlo per il rotto della cuffia. Stava per partire, ma notandolo l’autista lo ha aspettato. Casualmente, l’uomo è lo stesso che qualche ora prima guidava l’autobus che ha preso Nao. Salendo, il ragazzo non ha potuto far altro che pensare alla ragazza.

“ Chissà se anche lei è scesa nella mia zona. Inutile chiederlo all’autista, sicuramente non si ricorda. Può anche ricordarsi di lei, ma è veramente dura che abbia notato dove è scesa. Immagino che sia sempre così affollato. “

Già alla stazione, la prima fermata del mezzo, le sedie erano tutte occupate. Dopo due sole fermate, senza nemmeno essere usciti dal centro, il bus era pieno di gente. Guardando fuori del finestrino, Henka si pone qualche domanda, abbastanza frustrato.

“ Come diavolo farò ad uscire da qua quando arriverò alla mia fermata. Spero che scendano tutti prima o mi toccherà sfondare un vetro. “

Dopo circa dieci minuti di viaggio in mezzo al traffico caotico della città, il bus rallenta e si ferma nuovamente. Un’altra fermata. Le porte si aprono, con uno sbuffo, per far salire la gente.

Hana, raggiunta la fermata del bus, rimane un po’ spaventata nel vedere che non c’è nessuno oltre a lei. Si siede sulla panchina, durante l’attesa dell’autobus, sperando che arrivi il prima possibile. Si guarda in giro, ma nessuno passa per quella strada secondaria. Deglutisce, un po’ spaventata da quella situazione.

“ Speriamo che il bus arrivi presto. Questo posto non mi piace per niente. Mi da i brividi.”

Da dietro l’angolo, improvvisamente, si sentono delle voci. Hana gira la testa di scatto e guarda in quella direzione, notando delle ombre che si avvicinano pericolosamente. A quanto pare, si tratta di un gruppetto di ragazzi. Deglutisce di nuovo, sempre più spaventata. Il rumore delle porte a soffio del mezzo che si spalancano, la riportano alla realtà. Si gira verso la porta e salta in mezzo alla folla, guadagnandosi un piccolo spazio. I ragazzi girano l’angolo e, vedendo l’autobus strapieno, fanno segno all’autista di andare. L’uomo chiude le porte e il mezzo riprende la sua corsa. Hana, finalmente calma, tira un sospiro di sollievo e si appoggia dove può. Henka, stupito dalla scena, non riesce a distogliere lo sguardo da lei. Una ragazza molto carina, ma anche molto strana.

“ Che fretta c’era per salire così di soprassalto? Si è praticamente lanciata sulla folla.”

Henka fa spallucce, capendo di non poter leggere nella mente delle altre persone. Le successive fermate passano in modo opposto alle altre. La gente, pian piano, comincia a scendere l’una dopo l’altra. Quando, finalmente, arriva la sua fermata, non ci sono più di dieci persone sul mezzo, ragazza compresa. Hana scende dalla porta anteriore, mentre Henka da quella posteriore. I due prendono direzioni e si separano. Hana si dirige direttamente verso casa, cercando di stare il meno possibile da sola. Non è che quella sia una zona pericolosa, ma i maniaci ci sono ovunque. Inoltre, essendo una ragazza molto paurosa, tende a pensare sempre al peggio. Dopo essersi allontanata dalla folla del pullman, incomincia a correre velocemente verso casa. Girando un angolo, però, va a scontrarsi con un uomo. E’ abbastanza giovane, sui venticinque anni, ed è accompagnato da altri due. Non sembrano per niente le tipiche persone di cui ti puoi fidare. Hana, indietreggia, spaventata. Rimane paralizzata ad osservarli con gli occhi spalancati. L’uomo contro di cui si è scontrata è abbastanza alto e molto muscoloso. Indossa una semplice canottiera nera e un paio di jeans blu scuro. I capelli biondi sono fermati indietro con un cerchietto nero. La bocca, inarcata in una smorfia di disappunto, stringe una sigaretta rotta piegata per il nervoso. Osservandola con gli occhi marroni, pieni d’odio, sputa la sigaretta ancora accesa per terra. Un altro, appoggiato sul muro, è più basso del primo. E’ abbastanza grosso e tarchiato. Indossa una grossa felpa viola che lo fa ancora più grande. I pantaloni verde scuro sono larghissimi e strisciando per terra, girando sotto le scarpe dello stesso colore della felpa. Sulla testa indossa un capello di lana color verde muschio che lo copre fin poco sopra gli occhi. Ha una gamba appoggiata al muro. Con fare minaccioso, si solleva, sfruttando quest'ultima come leva. L’ultimo è anche più alto del primo, un vero e proprio colosso, ma dal fisico esile. Tra i tre sarebbe quello che fa meno paura, se non fosse per quel viso appuntito e dall’apparenza di vecchio maniaco. Dagli zigomi protesi, oltre le guance scavate, la osserva con gli occhi apparentemente privi d’emozioni. I capelli sono corti e scuri. Il primo dei tre, probabilmente il capo, la afferra per un braccio e incomincia a parlare.

<< Mi hai fatto veramente innervosire ragazzina. Ti pare normale correre per le strade? Devi chiedermi scusa. >>

Hana, singhiozzando per la forte stretta al braccio e per la paura gli risponde.

<< Scu… scusami. >>

L’uomo si gira verso gli altri due, muti, e incomincia a ridere. I due si guardano in faccia. Poi, prendono anche loro a ridere. Il capo si rigira e riprende a parlare, avvicinandosi al volto di Hana.

<< Non credere che queste scuse mi bastino. Mi hai rovinato la serata. Ora, devi farmi divertire. >>

Avvicina ancora il volto a lei ed apre la bocca, estraendo la lingua, nel tentativo di strapparle un bacio forzato. Hana si volta e urla.

Henka, qualche via più in là, gira spaesato alla ricerca del dormitorio. Ormai è buio e non riesce a muoversi bene. Fa fatica a leggere la cartina nelle tenebre ed è costretto, ogni volta, a fermarsi sotto un lampione per leggerle.

“Ma che diavolo, non potevano farla più semplice questa cartina. Bah, è colpa mia. Sarei dovuto venire qua prima, non so nemmeno se c’è posto.”

Arreso nel cercare il suo punto sulla cartina, la richiude e cerca di tornare alla fermata degli autobus da cui ripartire. Fortunatamente, gli ci vuole poco per ritrovare la strada. Poco prima di raggiungere la sua metà, però, sente un grido. Agitato, non può far altro che voltarsi nella direzione di esso. Rendendosi conto che si tratta di una ragazza in pericolo, si lancia alla sua ricerca. Incomincia a correre a perdifiato verso il luogo da cui proviene l’urlo.

Le luci d’alcune case lì vicine si accendono improvvisamente. L’uomo, preoccupato, sferra un pugno al volto di Hana, facendola cadere per terra.

<< Stupida puttana, guarda cosa hai combinato. Muoviti, rialzati. >>

L’uomo la strattona per un braccio, costringendola a rialzarsi. Poi, incomincia a trascinarla di forza per spostarsi da quel luogo. Voltandosi all’indietro chiama gli altri due.

<< Ehi! Muovetevi. Ho intenzione di fargliela pagare a questa mocciosa. Se volete rimanere qua e farvi prendere da qualche volante rimanete pure, io sloggio. >>

Senza dire nulla, i due lo raggiungono. Hana piange, cercando di liberarsi dalla presa del maniaco. L’uomo risponde stringendola con più forza e si volta per girare l’angolo della strada. Svoltando, gli occhi di Henka e del maniaco s’incontrano a pochi centimetri l’uno dall’altro. Entrambi stupiti, spalancano gli occhi e indietreggiano istintivamente. Hana sbatte contro la schiena del biondo. Henka, sentendo il suo lamento per il colpo, posa gli occhi sulla ragazza. La riconosce e capisce perfettamente la situazione. L’espressione di stupore viene sostituita da una di rabbia. Aggrotta le ciglia e incomincia a parlare con voce tonante all’uomo.

<< Ehi, bastardo. Togli le mani da quella ragazza. >>

L’uomo alza un sopracciglio, scocciato e stupito. Ridacchia. Poi, incomincia a parlare con tono sbruffone.

<< Cosa hai detto moccioso? Stai cercando grane? >>

Akame sferra un finto diretto, fermando il colpo a pochi centimetri dal naso dell’uomo. Il biondo indietreggia con le spalle, credendo di aver schivato il colpo grazie ai suoi riflessi. Spinge la ragazza verso i compari.

<< Tenete la ragazzina. A lei penserò dopo. Sembra che stasera ci siano un sacco d’idioti qua in giro. >>

Poi, si mette in guardia e risponde ad Henka.

<< Forza ragazzino, fatti sotto. >>

Il ragazzo, facendo un sorrisetto di soddisfazione, risponde a sua volta.

<< Con piacere. >>



Torna al sommario


Cap. 4



Il biondo è visibilmente furioso. Ha i denti digrignati e le ciglia aggrottate, in un’espressione vagamente ferina. Convinto di essere in netto vantaggio, si lancia contro Henka per colpirlo. Fa scivolare il piede destro in avanti e, seguendo il movimento traslatorio, carica un potente diretto al volto del ragazzo. Il pugno chiuso della sua mano destra si avvicina, pronto a colpirlo con quelle nocche segnate da tante risse. Il giovane, con la sinistra stretta intorno alla tracolla della borsa, si rende conto di non poter parare il colpo in quelle condizioni. Decide, dunque, di spostare la mano. Spostando la mancina dalla spalla con gran velocità, la porta esattamente davanti al pugno dell’avversario, fermandolo. Il palmo aperto accoglie con rude gentilezza il colpo dell’avversario. La mano indietreggia di qualche centimetro, prima che i muscoli contraendosi incassano del tutto il colpo, disperdendo la sua energia residua. Tenendo la mano stretta nella forte presa delle sue dita, osserva come la valigia si dimostrarsi una perfetta arma. Il sacco tubolare, privato del suo unico appoggio, rotea attorno alla spalla sinistra di Henka. Una delle estremità, a causa del movimento continuato dall’energia cinetica rimanente, impatta contro la cassa toracica del biondo. Non lo fa con esagerata violenza, ma quanto basta per provocargli un grosso livido. All’uomo scappa un urlo di dolore, subito soffocato dalla vergogna di farsi vedere in quello stato dai suoi scagnozzi. Roteando di nuovo gli occhi verso il suo avversario, il maniaco fa per parlare.

<< Bastardo, non credere … >>

Il ragazzo, spietato, non gli da nemmeno il tempo di rispondere. Mentre il biondo era impegnato a salvare la sua faccia, difatti, lui caricava un potente diretto con il braccio destro, perfettamente libero. La mano, chiusa in un minaccioso pugno, si avvicina a gran velocità al volto sventurato dell’uomo. Un colpo che, decisamente, va oltre le sue capacità. Non riuscirebbe mai a parare una cosa del genere. Fa appena in tempo a vederlo e assumere un’espressione a metà tra il terrorizzato e lo schifato. Le nocche del giovane impattano contro il naso cartilagineo del maniaco, rompendolo inevitabilmente. Prima, la punta si piega forzatamente; poi, la struttura portante si spezza in un sonoro “crack”. Mollando la presa della sinistra, Henka lascia cadere a terra il biondo. L’uomo sbatte la schiena, cadendo sul marciapiede in cemento, ma pensa a ben altro dolore. Si porta, istintivamente, le mani al naso, coprendo quell’orribile scultura d’arte moderna. Inizia ad urlare di dolore. Biascica parole incomprensibili a causa del singhiozzo. Dagli occhi strizzati con forza, si fanno strada quelle che sono sicuramente lacrime. Si rotola per terra come un animale ferito, urlando e frignando senza fine. Il ragazzo, deluso, lo guarda dall’alto al basso mentre gli parla.

<< Tch. Speravo che, dopo tutte quelle arie che ti sei dato, saresti riuscito a resistere ad un pugno. Invece guardati. Sei per terra a frignare come un moccioso che ha fatto a botte per la prima volta.>>

Uno dei due scagnozzi, il più grasso, si lascia prendere dall’ira e attacca con furia.

<< Figlio di puttana, non alzare le mani su Satoshi! >>

Lascia andare Hana, buttandola contro l’altro complice. La ragazza si agita e urla, cercando di liberarsi. Il colosso, nonostante l’apparenza, ha una presa ferrea e non accenna a mollare. La giovane, sconfitta, si arrende e incomincia a piangere. Ormai, sembra che può fare affidamento solo su quello sconosciuto dall’aria spaventosa. I suoi vestiti, il suo aspetto, tutto di lui le fa paura. In qualche modo, quel misterioso salvatore le fa anche più paura dei tre ceffi. Il ciccione, infilando la mano destra sotto la felpa, estrae un lungo tubo metallico. L’arma, seppur rudimentale, è fatta in acciaio e Henka non ha intenzione di farsi colpire. Con gli occhi fissi sul suo avversario, si prepara ad anticipare le sue mosse. Notando il suo sguardo attento e preoccupato, il grassone cerca di farlo infuriare, insultandolo.

<< Che c’è pivello? Hai paura? Non eri tu quello che faceva tanto il gradasso? Vieni qua. Dove scappi! Ah ha ah.>>

Il maniaco, brandendo l’arma improvvisata con una mano, sferra un fendente orizzontale mirato alle costole del ragazzo. Henka, con riflessi felini, individua il colpo e scatta all’indietro con un balzo. Piega leggermente le gambe e, distendendole di colpo, compie un piccolo, ma veloce, salto che gli permette di schivare il colpo. La barra d’acciaio vibra nell’aria, quando il grassone si prepara a sferrare un altro attacco. Solleva il braccio sopra la spalla, per poi riabbassarlo velocemente in direzione della testa del giovane. Henka fa una smorfia, scocciato.

“ Cazzo. Devo per forza pararlo. Non ho altra scelta.”

Con un movimento fulmineo, sposta la mano sinistra sulla cerniera della borsa. La tira con tutta la forza che ha in corpo, tanto che sembrano uscire scintille dalla sede. Con un movimento altrettanto veloce, nel frattempo, afferra un oggetto dentro di essa. Stringe l’oggetto cilindrico nel palmo della destra con forza, pronto ad estrarlo. Lo spilungone, osservando la situazione, capisce che il ragazzo ha un’arma. Preoccupato per la sorte del ciccione, lancia Hana per terra ed estrae un coltello dalla tasca. La ragazza cade a terra, sbattendo contro il marciapiede. Urla di dolore e rimane accasciata a piangere, sperando che tutto finisca al più presto. Il colosso, intanto, cerca di avvicinarsi per entrare nella mischia, ma ormai è troppo tardi. Il tubo metallico s’infrange contro una sottile lama. L’acciaio vi passa attraverso, tagliandosi come burro. I due maniaci guardano esterrefatti quell’arma tanto antica quanto spaventosa. Non ci sono dubbi, quella che il ragazzo ha tra le sue mani è una Katana. I loro occhi, stupiti, riescono a vedere poco o nulla di quella splendida e temibile arma. L’impugnatura ricoperta di seta nera compare appena dalla mano destra del giovane. La decorazione, presente sul pomello all’estremità dell’impugnatura, è arancione e riflette i bagliori azzurri della luna. La guardia sembra fatto dello stesso materiale della decorazione. Il colore ramato, anche qui, riflette la luce lunare che mostra ogni sua singola deformazione artistica. Un vero capolavoro in grado di mettere i brividi, soprattutto ai due maniaci. I loro occhi, difatti, arrivano alla minacciosa lama. Il ragazzo non l’ha estratta completamente, anzi. Con la mano sinistra ha afferrato il fodero, di modo che solo una sezione della lama comparisse. L’anima della spada e i primi tre centimetri di filo, niente di più. La parte tagliente riluce dei colori della luna, completamente inondata dal suo chiarore pallido. La struttura, invece, è immersa nella notte e sembra nera come il buio. Incantati da quella visione, i due non guardando nemmeno il fodero nero e privo di decorazioni. Sono accecati da quella lama. C’è qualcosa in essa, oltre alle sue temibili potenzialità, che li fa tremare come foglie. Henka, affatto stupito dalla loro reazione, rimane ad osservarli per qualche secondo. Il biondo, nel frattempo, si è dato una calmata. Dopo essere riuscito a sopportare il dolore al naso, si è ritrovato ad osservare impotente alla scena. Spaventato, appoggia una mano a terra per alzarsi. Si tiene una mano sotto il naso nel tentativo, vano, di fermare la fuoriuscita del sangue. Voltandosi verso i due amici, gli urla contro.

<< Vi sembra il momento di fare le belle statuine!? Pezzi d’idioti, ha una spada! Scappiamo! >>

Lo spilungone, rendendosi conto di non poter far nulla nemmeno col suo coltello, lascia cadere l’arma a terra. La lama metallica rimbalza sull’asfalto, tintinnando. Il ciccione è, però, il primo dei due a seguire i consigli del capo. Si volta di scatto dalla parte opposta ad Henka e lancia quel che resta del tubo d’acciaio oltre la recinzione di una casa. Poi, seguito dallo spilungone, incomincia a correre. Il biondo li segue, battendo in ritirata tutti e tre insieme. Il ragazzo, tranquillizzandosi, tira un sospiro di sollievo. Avvicinando le mani, rinfodera completamente l’arma e fa per rimetterla nel suo bagaglio. Hana, sentendo che i tre sono scappati, incomincia a piangere di meno, ma non riesce a non pensare di essere in pericolo. Dopotutto, lo ha detto anche quell’uomo: Il misterioso salvatore brandisce una spada. Si rannicchia su se stessa, sperando con tutta se stessa che se ne vada. Henka infila spada e fodero nella sacca tubolare e richiude la cerniera. Poi, perdendosi nell’immagine della luna, incomincia a riflettere.

“ Ancora una volta ho dovuto ricorrere a questa spada. Prometto ogni volta di non farlo, non in queste situazioni, non contro questi nemici, ma non riesco mai a mantenere la mia promessa. Poco importa. Ormai sono a pochi passi dal mio obiettivo. Troverò la Kazoku no Kumiai e riuscirò nel mio intento. Non ho paura di loro, nemmeno dei clan principali. Sono ben consapevole di come vengono scelti i diciotto rappresentanti. Un torneo. Ogni cinque anni si svolge un torneo diviso nelle diciotto discipline del Bujutsu. Il vincitore d’ogni disciplina raggiunge il rango di Ken no Kami, Dio della spada. Persone che hanno raggiunto la massima espressione del loro stile di combattimento e non temono sconfitte nella loro disciplina. Ci può essere solo un Ken no Kami per clan, al massimo. Il risultato è che ogni clan dotato di Ken no Kami diventa uno dei diciotto rappresentati della Kazoku no Kumiai. Non saranno nemici tanto comodi e sarà meglio farseli alleati, ma il mio obiettivo a priorità assoluta. Non importa quale mostro sacro della spada mi troverò davanti, sconfiggerò chiunque. Lo farò con questa spada. Per quanto significhi per me, rimane in ogni caso un importante simbolo per la mia missione.”

Henka, sentendo il pianto di Hana, torna sulla terra. Incomincia a fissarla, consapevole del suo stato d’animo attuale. Capendo di non poter fare molto altre, e il fatto che quasi sicuramente anche lui le fa paura, si limita a sedersi. Appoggia il sedere sul bordo del marciapiede, accanto a lei. Rimane muto a fare la guardia come un cane fedele al padrone. Ha sempre avuto quest’attitudine cavalleresca. Non importa cosa sta succedendo o a chi, Henka sente sempre il bisogno impellente di aiutare chi si trova nel giusto. Decide, dunque, di rimanere a vegliare su di lei finche non si decide a riprendersi. E’ seduto, con le braccia appoggiate sulle ginocchia. Rimane nuovamente incantato dalla luna. Un sorriso si dipinge sul suo volto, rendendolo molto meno minaccioso. Lei, intimorita, apre gli occhi. Lo vede, seduto a pochi centimetri da lei con il volto sorridente. E’ ancora spaventata da quel ragazzo misterioso, ma incomincia a capire che può fidarsi di lui. Smette di piangere e deglutisce, nel tentativo di dire qualcosa. Di ringraziarlo, di presentarsi. Non lo sa nemmeno lei. Rimane che Henka, sentendola, si volta verso di lei per attendere le sue parole. Hana apre la bocca per parlare, ma la sfortuna del ragazzo colpisce ancora. Una folata di vento improvvisa li investe, smuovendo i capelli del giovane. Il ciuffo nero corvino si alza, scoprendo completamente l’occhio sinistro. Lui, spaventato, spalanca gli occhi e rimane paralizzato. Hana, invece, non riesce a staccare gli occhi da quello che vede e prende a tremare visibilmente. Un occhio rosso. Uno spaventoso occhio rosso, apparentemente iniettato di sangue. Lo sguardo di uno spaventoso demone. Hana chiude gli occhi e grida. Le luci d’altre case nel vicinato si accendono. Qualcuno compare alla finestra, gridando. Altri, spaventati, pensano di imbracciare il telefono per chiamare una volante, ma alla fine nessuno lo fa. Hana, ricominciando a piangere, si allontana dal mostro come può. Lui, esterrefatto, non sa cosa dire. Rimane semplicemente ad osservare la scena a bocca aperta. La ragazza si alza e, voltandosi, scappa scomparendo nel nulla. Henka non tenta nemmeno di inseguirla, ancora paralizzato. Tende una mano verso di lei, come per fermarla, ma ormai è troppo lontana. Balbetta qualcosa.

<< A… a… aspetta. >>

Arreso, abbassa la mano. Si volta e prende a guardarsi le scarpe, triste. Si sistema, con malavoglia, il ciuffo. Rimane per qualche secondo fermo, lasciando che i pensieri scorrano liberi come un fiume in piena. Gli viene voglia di lasciarsi andare, ma sa che non può farlo. Ha perso tutto. Non ha nessuno che lo aspetta a casa, ne ha una casa. Sfogarsi, lasciarsi trasportare dalle emozioni significherebbe la sconfitta per lui. Se i sentimenti finissero per prendere il sopravvento, probabilmente la depressione lo coglierebbe e finirebbe per uccidersi. Preferendo non pensare a certe cose, deglutisce come per mandare giù quelle riflessioni e si alza. Con la mano sinistra afferra la tracolla della borsa e la poggia sulla spalla. Poi, ficcandosi la destra nella tasca, ne estrae una mappa rovinata.

“ Acc! Avrei almeno potuto chiederle se sapeva come arrivarci. Oggi è stata un'altra giornata sfortunata a quanto pare. Spero che le cose cambino, d’ora in poi.”

Poi, alzando lo sguardo verso la lunga strada poco illuminata, incomincia a camminare per scomparire nel buio.

Edited by Blecco. - 16/7/2009, 08:50
 
Top
.Cadav.Erica.
CAT_IMG Posted on 9/5/2009, 00:10




bubu domani leggo xD
 
Top
Blecco.
CAT_IMG Posted on 14/5/2009, 18:27




Ho aggiunto il capitolo 2 :ebete:
 
Top
.Cadav.Erica.
CAT_IMG Posted on 14/5/2009, 19:04




Letti, ti dissi i problemi in msn :pugno:
 
Top
Blecco.
CAT_IMG Posted on 20/5/2009, 18:34




Ho aggiunto il capitolo 3 :ebete:
 
Top
.Cadav.Erica.
CAT_IMG Posted on 20/5/2009, 19:51




Più tardi o domani lo leggo :pugno: ora sono un po occupata asd
 
Top
CAT_IMG Posted on 21/5/2009, 15:18

ma nn ti finiscono mai i messaggi?
»»»»»»»»»»»»

Group:
Member
Posts:
38,054

Status:


Letto tutto, grande Blecco, spacca.Specialmente il primo capitolo.
Unica cosa, non mi piacciono molto i pensieri dei personaggi, quelli tra virgoletti per intenderci...mi sembrano troppo "veloci" presentati così

Grande comunque :pugno: E fatti fare la Prefazione da qualche tuo fan che ti conosce bene, è più figo così :gh: E pensa anche ad una copertina :sirulez:

Attendo il quarto capitolo, avvisa quando esce.
 
Top
Blecco.
CAT_IMG Posted on 24/5/2009, 19:10




Ooookkei. Sentirò peppo va asd. Mmm per quanto riguarda i pensieri cercherò di farli più muraddosi contento? asd cosi son belli lunghi ed articolati. ho un botto di idee *_*. scusate se non posto cap a raffica ma mi alterno tra lavoro-capnuovo-lineeguida dei cap futuri.
 
Top
Blecco.
CAT_IMG Posted on 25/5/2009, 18:33




Aggiunto il cap 4
 
Top
Blecco.
CAT_IMG Posted on 9/6/2009, 07:31




Per qualche fotutto motivo mi si sono sputtanati tutti i codici, pausa pranzo cerco di sistemare tutto intanto beccatevi il capitolo 5

Torna al sommario


Cap. 5



Mentre corre, nella mente di Hana continua a ripetersi l’immagine di quell’orrendo occhio sanguinario. Sapeva che non avrebbe dovuto fidarsi di quel ragazzo. Non capisce perché non sia scappata prima, ma sa che avrebbe dovuto farlo. Quella serata, per lei, non è stata affatto delle migliori. Fin da quando si è separata dalle sue amiche, se lo sentiva che sarebbe successo qualcosa del genere. Prima la fermata del bus deserta, dove è stata costretta ad aspettare, poi lo scontro con quei brutti ceffi. Forse, se non si fosse lasciata trasportare come il solito dalla paura, tutto questo non sarebbe successo. Ha rischiato veramente tanto. E’ finita dalla padella nella brace, quando quello spaventoso ragazzo è accorso in suo aiuto. Si è liberato facilmente dei tre maniaci che lei non riusciva nemmeno a fronteggiare con tutta se stessa. Poi, dopo averli sconfitti, è rimasto li, come nell’attesa di un premio. Dopotutto, si è rivelato non essere molto diverso dagli altri tre, forse solo più stupido visto che è riuscita a scappare. Per un attimo, però, quel diavolo era riuscito ad ingannarla. Quella folata di vento l’ha salvata, mostrandole la sua vera natura. Solo una persona mostruosa può avere un aspetto tanto orrendo. Nella sua mente, dominata da pensieri negativi, l’immagine di Henka si deforma. L’occhio rosso incomincia a perdere fiotti di sangue e cambiare la forma della sua pupilla in un’ellisse verticale. La bocca del ragazzo s’inarca in un sorriso demoniaco, dominato da due file di zanne insanguinate. Una lingua serpentina esce minacciosa dalle sue labbra e, dietro di lui, un’aura assassina si espande pericolosamente. Hana chiude gli occhi, ricoperti di lacrime, mentre continua a correre. Inciampa in un punto rovinato del marciapiede, cadendo rovinosamente a terra. Non si fa niente, per fortuna. Si sbuccia solamente un ginocchio. Rimane a terra, singhiozzando, per qualche minuto. Poi, sollevandosi sulle braccia, tenta pian piano di tornare in piedi. Si ripulisce gli occhi dalle lacrime con una mano e tenta di focalizzare il luogo intorno a lei. Lo riconosce. E' quasi arrivata a casa. Deglutisce e cerca di togliere ogni segno delle lacrime, poi gira l’angolo. Davanti a lei si alza il grande cancello di ferro del dormitorio in cui vive. Il maestoso guardiano di metallo è chiuso, per impedire a chiunque di entrare nel territorio che protegge. Vedendolo, Hana si sente un po’ sollevata, sperando di trovare un po’ di sicurezza almeno in quel luogo. Si avvicina lentamente al citofono. Poi, preme l’unico pulsante. Un breve segnale indica che la chiamata è stata mandata all’interno della casa. Una voce leggermente metallica risponde dal ricevitore.

<< Chi è? >>

Riconoscendo la voce della zia, Hana ritrova il sorriso e un po’ delle pene di quella giornata sembrano scomparire. Con voce allegra risponde senza esitazione.

<< Zia Kemuri sono io, Hana. >>

La donna risponde semplicemente con un “ciao” e le apre il cancelletto. Un “clack” deciso segna l’apertura del piccolo cancelletto interno al passo carraio. Hana, afferrando una delle sbarre metalliche, spinge la porta verso l’interno per aprirla. Dopo essere entrata nell’ampio giardino, richiude il cancelletto dietro di sé, assicurandosi che sia ben chiuso. Il giardino è buio e non si riesce a distinguere le piante e i fiori sparsi in esso. Una luce, né troppo forte né troppo debole, si accende rivelando un terrazzino. Completamente fatto in legno, è collegato al terreno con tre gradini. I listelli diagonali si ripetono in una cornice apparentemente infinita, dando un bell’effetto decorativo. Protetto su due lati da una ringhiera, anch’essa in legno, e sugli altri due lati dai muri dell’edificio, è il luogo perfetto dove trascorrere l’estate. Su di esso, difatti, si trova un grosso tavolo di legno, in stile tipicamente campestre, e sei sedie dello stesso stile. Dopo aver attraversato il sentiero di ghiaia, Hana sale gli scalini mentre la porta d’ingresso si apre lentamente. Sull’uscio, Kemuri osserva con sguardo spensierato la nipote. E’ alta poco più di lei, un metro e sessantaquattro centimetri. Assomiglia molto alla ragazza, anche perché è raro vedere quei tratti somatici in giappone. Ha una pelle molto chiara, tipica dei paesi finnici, che tradisce le sue origini del vecchio continente. E’ dotata di un fisico invidiabile ed è anche abbastanza formosa. Braccia e gambe sono sottili e delicate. Le prime, inoltre, sono visibilmente allenate. Le piccole mani sono rovinate sul palmo, probabilmente a causa dei continui lavori in casa. Il volto è molto simile a quello della nipote, dai tratti nordici. Ha un naso piccolo e carino, che la ringiovanisce. Gli occhi sono di un color azzurro tendente al blu e ricordano l’oceano. I suoi capelli sono di un castano molto chiaro, quasi biondiccio. Li tiene abbastanza corti, legati sulla nuca con una coda di cavallo lunga non più di dieci centimetri. Dalle tempie partono due lunghe ciocche bionde che le contornano il viso, lasciando la fronte scoperta. Indossa una maglia bordeaux, molto più larga della sua misura. Le gambe sono coperte dai pantaloni di una tuta blu, anch’essi abbastanza larghi. Ai piedi porta un paio di pantofole nere. Il suo abbigliamento non è dei migliori e l’abbinamento dei colori è ancora peggio. L’unico indumento abbastanza di gusto è il grembiule. In stile campagnolo, è formato da quadrati bianchi e rossi. Tutt’intorno ad esso è presente un delicato merletto bianco. All’altezza della vita, poi, c’è una grossa tasca porta tutto che, a vedere la forma che si disegna in essa, contiene un pacchetto di sigarette e un accendino. Il laccio rosso si lega dietro la vita. Hana segue, come ipnotizzata, la mano della zia che si porta la sigaretta alla bocca. Estraendo l’accendino dal mascone, la accende. Da un’aspirata, poi la toglie dalla bocca e parla.

<< Allora Hana, com’è andata la giornata con le amiche? >>

La ragazza, abbassando lo sguardo, le risponde cercando di sviarla. Mentre parla entra nell’edificio, creandosi uno spiraglio a fianco della parente.

<< E’ andato tutto bene. Scusa, ma te lo racconto un’altra volta. Ora sono molto stanca. >>

La donna, non sospettando nulla, le sorride e la lascia passare.

<< Buonanotte allora. Io rimango fuori a finire la sigaretta. >>

Hana fa un cenno, poi lascia che l’ingresso si richiuda dietro di lei e saluta la donna.

<< Notte zia. >>

Henka, sconsolato, rivive nella sua mente i momenti appena passati e ripetuti tante volte nella sua vita. Quell’occhio, rosso come il sangue, è la sua maledizione da parecchi anni. Si è lasciato crescere anche un grosso ciuffo per coprirlo, ma alla fine tutti vengono a scoprirlo. La reazione che spesso hanno è la stessa di Hana, corrono via spaventati. Conoscenti, passanti e anche gli amici. Nessuno riesce a sopportare la vista di quell’occhio. Pochi sono quelli che non l’hanno abbandonato dopo la triste scoperta. Lui non lo vuole ammettere, ma la cosa lo ferisce profondamente. Con il borsone appoggiato sulla spalla e la testa bassa, rivolta verso la strada, continua a camminare per le strade semibuie della città. Infilando una mano nella tasca, estrae ancora una volta il foglio stropicciato del dormitorio.

“Chissà se ci sarà ancora qualcuno ad aprirmi a quest’ora.”

Da un altro sguardo alla mappa, sfruttando la luce di un lampione funzionante. Si ferma e volta la testa verso destra. Di fianco a lui, un grosso cancello di ferro costituisce l’unica entrata di un grosso edificio immerso nel buio. Contornato da alcuni grandi alberi e un grande giardino, protetto da un alto muro in mattoni, quella casa sembra un’oasi di campagna in mezzo alla metropoli. Una fioca luce illumina una specie di veranda. Henka non riesce a vedere bene, data la distanza e il buio, ma gli sembra di scorgere il profilo di una persona. Poggia il dito all’unico campanello presente sul citofono, quando la luce di una sigaretta accesa da conferma alla sua tesi. La misteriosa persona si avvicina, passando in mezzo al giardino buio. Il ragazzo si ferma e capisce che è meglio evitare di premere il campanello. Quando la figura raggiunge il cancello di ferro, la luce del lampione la illumina. E’ Kemuri. Tenendo la sigaretta in basso, per non far arrivare il fumo al giovane, gli parla.

<< Posso esserti d’aiuto? >>

Henka rimane un attimo assorto nell’osservarla. Il suo aspetto è “particolare”. Gli sembra d’averla già vista da qualche parte. Inoltre, i tratti, di certo non giapponesi, sono facilmente riconoscibili. All’udire le parole della donna, si libera dalla momentanea paralisi e accantona i pensieri per un attimo.

<< Salve, stavo cercando il dormitorio di questo volantino e sono arrivato qua. E’ giusto o l’ho disturbata >>

La donna trattiene una risata per il fare gentile di quel ragazzo dall’aspetto del tipico teppista.

<< No, non disturbi affatto. Se t’interessa una camera, ne abbiamo ancora una libera. Ti apro, entra pure così puoi darci un’occhiata. >>

Il giovane accenna un inchino di ringraziamento, provocando ancora una volta ilarità nella donna. Kemuri allunga la mano libera nel buio e preme un pulsante. Il cancelletto si apre ed Henka entra tra i confini della casa. Kemuri, da perfetta proprietaria e unica dipendente del dormitorio, apre e chiude la porta per il possibile cliente e lo accompagna in casa. Il ragazzo si guarda intorno, spaesato e curioso come un bambino, ma non riesce a scorgere nulla del giardino immerso nel buio. Le luci della casa sono tutte spente, data l’ora tarda. Aprendo la porta d’ingresso, i due entrano nella hall e Kemuri accende la luce. La stanza non è molto grande, arredata con uno stile più casalingo che adatto ad un albergo, ma perfetto per un dormitorio tanto piccolo. Henka sorride, soddisfatto di aver ritrovato, dopo tanto tempo, un ambiente dall’aspetto rassicurante come quello. Kemuri getta la sigaretta in un portacenere accanto all’entrata, spegnendola. Alla sua sinistra, due porte di legno scuro costituiscono l’ingresso a quelle che sembrano le prime due stanze. Sul muro di destra, invece, si apre un’arcata su quello che da su quello che sembra il soggiorno. Davanti a lui si alzano le scale che portano all’unico piano superiore. Kemuri gli sta indicando proprio quelle, invitandolo a raggiungere il secondo piano. Arrivati al piano superiore, Henka si trova uno spettacolo molto simile a quello precedente. La parete sinistra è totalmente uguale a quella del piano inferiore, mentre la destra presenta due porte che conducono ad altre due camere. Il dormitorio è abbastanza piccolo e dall’aspetto familiare con le sue sole sei camere. La donna supera la prima porta e raggiunge la seconda sulla parete sinistra. Estrae dalla grossa tasca del grembiule un mazzo di chiavi. Le passa per qualche secondo nella mano. Poi, ne afferra una verde e la gira nella serratura. Dopo un paio di giri, il blocco scatta, aprendo la porta e Kemuri, si rivolge a Henka.

<< Allora. Questa è la tua stanza, la numero quattro. Troverai le chiavi nel cassetto del comodino a fianco del letto. Spero che ti piaccia, è l’unica libera. >>

Henka le fa un cenno. Poi, risponde.

<< Non si preoccupi. Mi adatto a qualsiasi cosa e, a giudicare dal resto, non credo che sia tanto male. >>

<< Beh, mi farai sapere pregi e difetti domani. Il prezzo è quello scritto sul volantino. Si paga una volta al mese. Per il primo basta che me li dai appena puoi. >>
La donna, poi, si scosta e gli spalanca la porta della camera. Lui entra nel locale e accenna un inchino. Lei non riesce a trattenere una risatina, divertita.

<< Grazie ancora, signora. Ho tenuto da parte parecchi risparmi e la pagherò domani. >>

Lei, sorridendo, gli parla un’ultima volta prima di salutarlo.

<< Puoi anche darmi del tu e chiamarmi semplicemente Kemuri. Che maleducata! Non mi sono nemmeno presentata. Mi chiamo Kemuri Hokkoku e, come avrai capito, sono la proprietaria di questo dormitorio. >>

<< Lo stesso vale per signora Hokkoku. Mi chiamo Henka Gansaku e sono uno studente. Mi sono trasferito per poter seguire le mie esigenze scolastiche, visto che provengo dalle montagne dove non ci sono università. >>

La donna, capendo che il loro discorso potrebbe infastidire qualcuno, decide di rimandare il tutto all’indomani.

<< Ti ho detto di chiamarmi Kemuri. Se continui così potrei offendermi. Dai. Continuiamo le presentazioni domattina. Ora potremmo svegliare qualcuno. Buonanotte. >>

<< Buonanotte… Kemuri. >>

La donna sorride e scende le scale, scomparendo dalla vista del ragazzo. Henka la segue per un po’ con lo sguardo. Poi, richiude la porta dietro di sé.

Hana, distrutta da quella giornata da dimenticare, vuole semplicemente rilassarsi. Dopo aver lasciato la zia sull’uscio, entra in camera sua. Va in bagno e apre l’acqua calda per riempire la vasca da bagno. Mentre l’acqua fumante si raccoglie, formando una gran quantità di vapore che riscalda l’ambiente, la ragazza incomincia a spogliarsi. Quando la vasca è piena, chiude l’acqua e vi s’immerge. Nonostante sia a temperature elevate, la giovane non fa una piega, evidentemente abituata. Rimane per un attimo a mollo, con un braccio penzoloni e la testa poggiata sulla ceramica fredda con gli occhi chiusi. Nella sua mente, ancora una volta, compare l’immagine di quell’occhio. Spaventata, reagisce d’istinto e si rannicchia in posizione fetale.

“ Perché devo essere sempre così sfortunata. Tra tutte le persone che potevano passare di li, che potevano sentire il baccano e aiutarmi, perché proprio lui. Era vestito strano, ma non sembrava cattivo. Perché deve aver quell’occhio. Forse sono stata ingiusta con lui. Dopotutto mi ha salvato. Forse… mi sono sbagliata. Non c’è dubbio che è meglio tacere tutta la vicenda. Se zia Kemuri venisse a sapere di quello che è successo, sicuramente chiamerebbe i miei genitori. Immagino già papà che mi costringe a ritornare a casa. Non voglio andare a qualche università di provincia. Si, è decisamente meglio stare zitti. Spero solo di non incontrare più quel ragazzo.”

Poi, un brivido, le sale lungo la schiena. L’acqua è diventata fredda. Da un’occhiata all’orologio poggiato a fianco del lavandino e si rende conto che sono passate parecchie ore.

“ E’ meglio che vado a letto o domani non mi sveglio più. Dormirci sopra mi farà sicuramente bene.”

Henka è appena entrato nella sua camera. Accende la luce e rimane abbagliato dalla vista. Gli sembra di essere tornato a casa, una casa che non ha mai avuto veramente. Appoggia la borsa per terra, accanto alla porta, mentre squadra la stanza. Un letto matrimoniale, con le coperte perfettamente rimboccate. Un armadio di legno dall’aspetto molto spartano, ma pur sempre bello. Due comodini dotati di lampade e una radiosveglia che segna in grande l’ora attuale. In fondo alla stanza, a fianco della finestra, c’è una scrivania vuota. Un’altra porta conduce in un bagno dotato di tutti i comfort, vasca da bagno compresa.

“ Quasi quasi mi faccio una doccia. Saranno passati giorni dall’ultima volta che ho avuto l’occasione di lavarmi.”

Richiudendo la porta dietro di se, incomincia a spogliarsi, quando sente un rumore. È Il rumore di un corpo che esce dall’acqua, un corpo femminile. Una persona normale non l’avrebbe mai capito, ma Henka è diverso. Aspetto da teppista, amico di tutti, tendenze da eroe e, soprattutto, pervertito incallito. Queste sono le parole per descrivere in modo perfetto il ragazzo. Non si è mai fatto problemi a provarci spudoratamente con qualcuna o a spiare nelle case e spesso si è cacciato nei guai per questo. Il lupo, però, perde il pelo ma non il vizio. Si riveste immediatamente e corre fuori del bagno. Spalanca la portafinestra e, dal balcone della sua camera, si lancia al piano di sotto. Nonostante il salto di oltre tre metri, atterra perfettamente sulle sue gambe, dimostrando un’agilità sovraumana. Atterrando, flette le gambe per assorbire il colpo. Poi, tende l’orecchio a cercare di avvertire qualche altro rumore. Il chiaro rumore di un phon acceso lo attira verso una piccola finestrella. Probabilmente identico al suo bagno, anche quello della misteriosa persona è dotato di una piccola finestrella a battente alta circa mezzo metro e posta oltre gli sguardi indiscreti. Lui, però, non ha intenzione di farsi fermare da trappole per pervertiti di basso calibro. Spicca un salto e appoggia le mani sul davanzalino. Sta per sollevarsi facendo forza sulle braccia, quando un forte colpo alla testa lo costringe a mollare la presa. Rimane a terra per qualche secondo, intontito.

<< Aia! Chi diavolo è stato a colpirmi! >>

Ancora con la vista leggermente mossa, cerca di focalizzare la persona che ha davanti a se. Tiene una scopa di saggina a due mani e ha una sigaretta in bocca. E’ Kemuri, ed è visibilmente infuriata.

<< Cosa diavolo stai facendo tu! Non provare a farlo un’altra volta o sarò costretta a cacciarti. >>

Lui, credendo che fosse proprio lei la donna di prima, si scusa.

<< Ah ha! Kemuri. Scusami. Non volevo farlo. Lo giuro. Non immaginavo. Ora, sarà meglio che vada veramente a dormire, ah ha. >>

Con un altro salto, si aggrappa con le mani alla soletta del balcone. Poi, facendo sforzo con le braccia, si solleva e, infine, scavalca la ringhiera rientrando in camera. La donna rimane allibita, lasciando cadere la sigaretta che le pendeva dalle labbra. Ritornando al mondo reale, la spegne prima che il prato prenda fuoco. Ancora sbigottita, si gira e fa per tornare in camera. Henka, invece, s’infila sotto le coperte. Un flash gli fa capire che non poteva essere Kemuri la donna del bagno, ma lascia perdere le sue domande e si addormenta.

Edited by Blecco. - 9/6/2009, 14:05
 
Top
Blecco.
CAT_IMG Posted on 9/6/2009, 18:24




Torna al sommario


Cap. 6



Ancora una volta, il misterioso e cruento incubo invade le notti di Henka. Il ragazzo, disteso nel suo letto, si rotola tra le coperte, infastidito. Ogni volta che si ripete, il sogno diventa sempre peggiore. La donna è seduta sul lettino, anestetizzata, mentre il chirurgo le sta praticando il cesareo. Le immagini procedono normalmente fino a quando il bambino viene estratto dalla madre. Quando il cordone ombelicale gli viene tagliato, il sogno degenera in un’orrenda sequenza d’immagini. La donna, come posseduta da un demone, si contrae in modo innaturale, inarcandosi. Prende a vomitare sangue a getti e colpisce in pieno gli infermieri. Il dottore, per niente preoccupato, si gira e porta il pargolo al padre. Quando l’imponente uomo afferra il bambino, le sue dita gli affondano nella carne come dieci coltelli acuminati. Il neonato prende a piangere, più per la mancanza della mamma che per le ferite. Il padre, indifferente, esce dalla stanza. Attraversando la porta, il sogno fa un salto di qualche anno, mostrando ancora una volta l’infanzia del giovane. Il bambino, con appena dieci anni d’età, prende a girarsi sperduto. Ovunque guarda, però, trova solo scene d’orrore. Davanti a lui, un gruppo d’adulti torna nel villaggio tenendo tra le mani pezzi di cadaveri mutilati. Alla sua destra, un gruppo di bambini, più piccoli di lui, osserva con occhi persi una donna. Sono seduti su delle sedie, dietro dei banchi di scuola ed indossano delle uniformi tutte uguale. La donna è vestita come una professoressa e sta aprendo il torace ad un uomo ancora vivo mentre spiega qualcosa ai giovani. Alla sua sinistra, i suoi amici si nascondono dentro una capanna costruita con paglia e rami, terrorizzati da qualcosa. Cerca di avvicinarsi, ma loro e la capanna si allontanano sempre di più. Non sapendo dove potersi girare per evitare quelle scene, si volta per vedere dietro di sé. In quel momento, il sogno subisce un altro salto temporale. Come trascinato da un vortice rivive tutti i momenti passati, compresa l’uccisione del vecchio. Con gli occhi spalancati, prende ad osservare le sue mani. Le vede crescere a vista d’occhio e bagnarsi di sangue quando ricorda la morte del capo villaggio. Schifato, cerca di scrollarselo di dosso, ma non riesce. Poi, l’immagine di uno specchio attira la sua attenzione. Rinuncia a pulirsi le mani e osserva l’immagine riflessa in esso. Poi, sente una voce.

<< L… lo… specchio. >>

Henka si sveglia di soprassalto. Non riesce più a sopportare quell’incubo.

“ Cazzo. Non posso continuare così. Diventerò matto se peggiora ancora. Credo che la risposta stia in quella maledetta immagine riflessa nello specchio. Mi domando quando riuscirò a vederla. Farò meglio ad abituarmi e imparare a convincere con questa cosa.

E’ seduto sul letto, col sudore freddo che gli cola dalla fronte. Lo sguardo, perso nel vuoto, riesce a soffermarsi solo una volta raggiunto l’orologio digitale. Rimane in fissa sui numeri per qualche secondo, senza riuscire a leggerli. Quando il minuto scatta, torna al mondo reale e legge l’ora. E’ prestissimo. Probabilmente fuori sta albeggiando. Si volta verso la portafinestra chiusa. Si alza, la raggiunge e la apre. Un timido sole spunta da dietro le case, illuminando la città di una tenue e fredda luce. La temperatura, abbastanza bassa, non gli da molto fastidio nonostante sia a torso nudo. Con solamente i pantaloni blu del pigiama, sale sul piccolo balcone e guarda giù.

“Fare i miei esercizi mattutini in uno spazio così ristretto è impossibile. Credo che sia meglio scendere.”

Guardandosi in giro, per evitare che qualcuno lo veda credendolo un pazzo suicida, oltrepassa la ringhiera del balcone. Con un balzo, poi, si lascia cadere a terra. Quando atterra lascia che le gambe si flettano, assorbendo tutto il colpo, assumendo una posizione simile a quella di una rana. Sdraiandosi con la pancia a terra sull’erba ancora bagnata dalla rugiada, inizia a fare qualche flessione. Dopo centinaia di su e giù il suo fiato incomincia a farsi pesante. Decide di passare a quelle ad una mano sola. Continua per ore, ansimando sempre più pesantemente. Kemuri, sul patio a fumare, sente il rumore del suo respiro e si allarma.

“ Un altro pervertito?! Devo difendere Hana.”

Getta la sigaretta nel portacenere sul tavolo di legno e afferra la scopa di saggina. La imbraccia a due mani, pronta a colpire il guardone. Deglutisce, cercandosi di preparare ad osservare l’orrenda scena. Quando raggiunge il fantomatico maniaco, però, è costretta a ricredersi. Ancora con la scopa in mano, osserva stranita Henka. Il ragazzo, vedendo i suoi piedi, si ferma e solleva la testa. Lui la guarda confuso e, quando i loro sguardi s’incrociano, la donna si volta imbarazzata. Abbassa la scopa a terra, capendo di aver fatto un errore.

<< Scusami! E’… che ho sentito il rumore di respiri ansimanti e mi sono preoccupata. >>

Henka ci mette un po’ a collegare le cose. Poi, quando capisce, scoppia a ridere. Si lascia cadere sull’erba e continua a ridere di gusto, mentre Kemuri diventa rossa per l’imbarazzo. Inarca le sopracciglia, cercando di fare la seccata. Il ragazzo, capendo che è meglio smetterla, le risponde.

<< Non c’è nessun problema. Effettivamente chiunque avrebbe frainteso. Avrei dovuto dirtelo che faccio un po’ d’esercizio fisico la mattina. Non ti dispiace se sono sceso dal balcone vero? Non volevo disturbare gli altri scendendo le scale a quest’ora. >>

La donna fa una faccia sgomenta nel sentire con quanta semplicità il ragazzo menziona il fatto di “essere sceso dal balcone”. Dubita che ci farà l’abitudine presto alle capacità sovraumane di questo ragazzo. Poi, si decide di rispondere.

<< Ca… capisco. Si, hai fatto bene. Cerca solamente di non farti vedere o crederanno che ti vuoi ammazzare. Quasi mi dimenticavo! Visto che sei sveglio vado subito a preparati la colazione. A giudicare da quanto faticavi, devi avere una gran fame. Dammi mezz’ora e ti preparo qualcosa. >>

Henka, divertito, la ringrazia e le promette di farsi trovare lì fra trenta minuti esatti. La donna, quindi, lo saluta con un gesto della mano ed entra in casa. Passando per il patio, appoggia lì la scopa. Oltrepassa il corridoio, entrando nel soggiorno ben arredato. Al centro di esso c’è un tavolino decorato con una tovaglia ricamata e un vaso pieno di fiori nel centro. Intorno ad esso, ci sono tre divani verdi da due posti disposti a “U”. Ai muri ci sono molti mobili pieni di libri, soprammobili e altri oggetti. Passando un altro arco, più piccolo, entra nella sala da pranzo. L’unico arredamento presente è un grosso tavolo di legno a sei posti, dotato d’altrettante sedie. Quando entra nella stanza, vede Hana, seduta a capotavola. Ha le braccia appoggiate e la testa poggiate sul tavolo e ha lo sguardo perso nel vuoto. Kemuri, vedendola, la saluta mentre prosegue per la piccola cucina.

<< Buongiorno Hana. C’è qualcosa che non va? >>

La ragazza si stiracchia e sbadiglia, prima di rispondere alla donna.

<< Ciao zia. No, non ho niente. Ho solamente dormito poco oggi e crollo dal sonno. >>

La donna, facendo capolino dalla porta per scrutare la ragazza, prosegue il discorso.

<< Non riuscivi a dormire? >>

Hana si alza e fa per raggiungerla. Entrata nella cucina, le risponde mentre la guarda preparare la colazione.

<< Esatto. Non so perché, ma non riuscivo a prendere sonno. Piuttosto, come mai fai colazione per tre? Chi ha altro è già sveglio? >>

Kemuri, mentre fa saltare alcune uova in padella, si volta e le risponde con entusiasmo.

<< No, è arrivato un nuovo inquilino. Ha preso l’ultima stanza libera, quella sopra la tua. Deve avere circa la tua età. E’ simpatico, ma un po’ strano. E’ arrivato ieri notte dopo di te, quindi è normale che non lo sapessi. Beh, v’incontrerete quando è pronta la colazione. E’ in giardino a fare “qualche” esercizio fisico. È un tipo molto atletico a quanto pare. >>

Hana, persa nei suoi pensieri, sente la metà di quello che le dice la zia. E’ più interessata a riflettere su quello che è successo la sera prima, piuttosto che pensare al ragazzo nuovo. Lei è una ragazza molto socievole quindi, alla mancata reazione, Kemuri s’insospettisce. Guardandola con sguardo storto cerca di scrutare nei suoi occhi per carpire qualche informazione.

<< Sicura che va tutto bene? Su alla zia puoi dirlo. >>

Hana, messa alle strette, agita le mani in segno di diniego, quando la scusa perfetta si presenta sulla porta. Henka, sudato per gli esercizi e ancora a torso nudo, si presenta alla porta della sala da pranzo per la colazione. Gli occhi di Hana rimangono fissi sui muscoli ben delineati del ragazzo. La ragazza, molto timida per natura, diventa completamente rossa e urla, mentre entra di corsa nella cucina. Non lo riconosce, troppo presa a sfruttare oltremodo la sua timidezza per evitare altre domande della zia. Nemmeno lui la riconosce, scambiandola per Kemuri. Lui, confuso, ha paura e si avvicina cautamente per chiedere scusa. Kemuri, lasciando il cibo al suo destino, si mette a difesa di Hana brandendo un cucchiaio di legno. Henka, vedendola uscire nota che è non sembra la stessa di prima e rimane sempre più confuso. La donna lo aggredisce, colpendolo col mestolo in testa.

<< Idiota! Ti pare il caso di andare in giro mezzo nudo!? Hai fatto spaventare Hana! >>

Henka si protegge con le mani mentre continua a chiedere scusa.

<< Ehi non sapevo che… Scusa. Ho detto scusa! Non pensavo che ci fossero problemi. Non lo rifarò più! >>

Kemuri, furiosa, gli risponde mentre continua a colpirlo.

<< E ci mancherebbe altro! Forza. Va su a metterti qualcosa! >>

<< Ok, ok. Ai suoi ordini signora! >>

Kemuri stringe con forza il cucchiaio di legno, incrinandolo, mentre Henka corre su per le scale per cercarsi una maglietta. Hana, nel frattempo, esce dalla cucina e torna a sedersi a capo tavola. Kemuri le parla, cercando di sdrammatizzare la situazione.

<< Eh he. Beh, Hana, quello era il nuovo arrivato. Te l’ho detto che era un tipo strano no? >>

Hana, affatto divertita, le risponde abbastanza seccata.

<< Si. Ho notato zia. Scusa, ma sono abbastanza di malumore. Sarà colpa della nottata. >>

Kemuri sorride.

<< Non ti preoccupare. Capita, ma dovresti scusarti con lui quando torna. >>

La ragazza fa un cenno d’assenso e ricambia il sorriso. Quando Henka ritorna, però, la sua felicità scompare del tutto. Kemuri è già tornata in cucina a finire di preparare la colazione. Henka si presenta davanti alla porta della sala da pranzo con una maglia blu. Hana si volta verso di lui, pronta ad alzarsi per presentarsi, quando i loro occhi s’incontrano. I due ragazzi rimangono paralizzati per qualche secondo. Le immagini della sera precedente si ripetono nella loro mente. Henka è il primo a parlare.

<< Ehi… Volevo chiederti … >>

Hana, però, non sembra aver intenzione di parlare. Corre verso la porta e, dando una spallata al ragazzo, si crea un passaggio. Il giovane, intenzionato a non peggiorare le cose, la lascia passare, seguendola con lo sguardo mentre lei corre in camera. Kemuri, sentendo il baccano, esce dalla cucina preoccupata.

<< Che sta succedendo ancora?! >>

Henka, voltandosi verso di lei, fa spallucce.

<< Non lo so. Mi ha visto ed è scappata in camera. >>

Kemuri aggrotta le ciglia, arrabbiata, e fa per raggiungere la camera della ragazza, la numero due.

<< Hana! Adesso basta. Hai superato il limite con queste scenate. Una giornata no è ok, ma non puoi trattare cosi gli altri. Non costringermi ad aprire la stanza. >>

Henka la segue e osserva la scena in silenzio. Hana non risponde, l’unico rumore che proviene da oltre la porta è il suo pianto. Kemuri, seccata, estrae le chiavi dal grembiule e le infila nella serratura. Entrano, ma non girano. Hana ha lasciato le sue chiavi girate nella porta. Ancora più seccata, Kemuri le urla contro.

<< Va bene Hana. Fa quello che vuoi. Lo dirò a tuo padre appena lo sento. Ma tu guarda come tratta i clienti. >>

Poi, voltandosi verso Henka si scusa da parte sua e torna in cucina. Henka le risponde, ma non la segue.

<< No, non devi scusarti. Non c’è alcun problema. >>

Il ragazzo, triste, si siede e si appoggia alla porta della camera di Hana. Lei, dentro, lo sente solamente quando sbatte la testa contro il legno. Non dice nulla per qualche minuto, attendendo che la ragazza smetta di piangere.

<< Capisco la tua reazione. E’ quella che hanno tutti quando vedono quest’occhio. Mi chiamo Henka Gansaku. Sono scappato da casa ormai anni fa e quello che hai visto è uno dei pochi regali che la mia famiglia mi abbia mai fatto. Nemmeno gli altri sono dei bei regali. Non voglio parlarti di quegli anni, per me terribili. Non voglio che tu provi pena per me. Sarei andato avanti, come ho sempre fatto, se non ci fosse stata questa situazione. Non posso e non voglio andarmene da questo posto, per questo voglio dimostrarti che non sono quello che sembra. Imparerai a conoscermi e a capirmi, quindi, ti chiedo solamente una possibilità. Per favore, sono stufo di essere abbandonato da tutti. >>

La ragazza, commossa da quelle parole piene di tristezza che rivelano le difficoltà che ha dovuto passare, decide di dargli questa possibilità. Si asciuga gli occhi dalle lacrime. Poi, si alza e apre lentamente la porta.
 
Top
Blecco.
CAT_IMG Posted on 15/6/2009, 21:30




Torna al sommario


Cap. 7



Hana apre la porta di poco, continuando a nascondersi dietro il pannello di legno. Gli occhi sono ancora coperti dalle lacrime e il viso è straziato da quello stato d’animo devastante che è la tristezza. Apre la porta e scivola fuori della stanza, con la testa bassa per evitare lo sguardo di Henka. Il ragazzo la cerca di guardare negli occhi, con espressione infelice. Nessuno dei due accenna a parlare. La ragazza rimane in piedi di fronte a lui, con la testa bassa. Dopo qualche minuto, finalmente, gli parla.

<< Scusa. Non avrei dovuto reagire così. E’ tutta colpa di questa mia stupida paura degli estranei. >>

Hana si lascia cadere a terra, sbattendo le ginocchia per terra. Si porta le mani agli occhi, nuovamente coperti dalle lacrime. Henka capisce che non è l’unico a dover affrontare dei problemi, anche se di diversa natura. Le poggia una mano sulla testa, come per accarezzarla, e le sorride.

<< Non preoccuparti. Non mi sono arrabbiato. Mi dispiaceva solo aver rovinato un’amicizia fin dall’inizio. >>

Lei toglie le mani dagli occhi e fa per guardarlo. La sua espressione solare, in qualche modo, è contagiosa.

<< Non sei stato tu a farlo. Capisco che è stata tutta colpa mia. Non mi sono nemmeno presentata. Mi chiamo Hana Hokkoku. >>

Anche lei accenna un sorriso. Poi, Henka si alza e le porge una mano per aiutarla a rialzarsi. I due entrano nella sala da pranzo e si siedono al tavolo. Hana, prima di prendere posto, corre in cucina a scusarsi con Kemuri. Henka non sente il breve discorso tra le due, ma può benissimo capire cosa si siano dette. Quando la ragazza torna, i due riprendono il discorso. E’ Hana a prendere la parola, mentre si siede.

<< Devo ancora ringraziarti per ieri sera. Non voglio nemmeno pensare a quello che sarebbe successo se tu non ci fossi stato. Grazie, veramente. Sei un eroe. >>

Henka, imbarazzato, si gratta la nuca mentre ridacchia e arrossisce visibilmente.

<< Ah ha! Su su non esagerare ora. Chiunque l’avrebbe fatto al posto mio. >>

Lei le risponde con un sorriso, prima di continuare a parlare.

<< No. Sono sicura che sono poche le persone che rischierebbero la pelle per uno sconosciuto. Piuttosto, posso chiederti come mai sei venuto a Wan no Toshi, anche se immagino il motivo. >>

Lui, incuriosito, smette di ridere e inarca le sopracciglia mentre la osserva con sguardo penetrante.

<< Ah si? E perché sarei venuto qua secondo te? >>

Lei, orgogliosa delle sue deduzioni, gli risponde con voce squillante.

<< Beh, è facile! Per il mio stesso motivo. A guardarti, credo che tu abbia circa la mia stessa età. Immagino che da quando sei scappato di casa hai girovagato per diverse cittadine, ma questa è la migliore per il tuo scopo. In questa città ci sono un gran numero d’università di alto livello che offrono i più disparati indirizzi di studio. Inoltre la città è grande ed è semplice trovare posti in cui alloggiare a poco e un lavoro part time con cui pagarsi gli studi. >>

Lei potrebbe continuare a parlare per ore, ma la faccia sgomenta di Henka la costringe a smettere. Leggermente infastidita, riprende a parlare.

<< Ho detto qualcosa che non dovevo dire per caso? >>

Lui, svegliandosi dalla paralisi causata dallo stupore di come la ragazza abbia totalmente sbagliato a capire il suo obiettivo, le risponde ridacchiando. Ovviamente, non ha intenzione di dirle la verità, o sarebbe il colpo di grazia per una persona così paurosa.

<< Ah ha! No, no niente. Sono rimasto stupito da come tu sia riuscita a capire tutto così velocemente. Sei davvero brava come “investigatrice”. >>

Lei, trascinata dalla sua felicità, gli risponde mentre soffoca una risata.

<< Ih ih! Beh, non era così difficile. Dopotutto la maggior parte delle persone che si trasferiscono qui, vengono a Wan no Toshi per lavoro o per studiare. Piuttosto, a questo punto mi sembra ovvio chiederti quanti anni hai. >>

Lui, senza esitare un attimo, risponde con reazione istantanea.

<< Diciotto. Devo frequentare l’ultimo anno di superiori prima di tentare di entrare in un’università. Non sarà facile. Avrò bisogno di una borsa di studio per farcela. Un lavoro part time sicuramente non basterà per sostenere tutte le spese. >>

Lei, stupita, gli risponde con un’espressione particolarmente divertente. Ha la bocca aperta e gli occhi spalancati e si sta indicando con un dito.

<< Anche io devo fare l’ultimo anno. Non sarà facile prendere una borsa di studio, ma anche per me vale lo stesso. I miei genitori non hanno abbastanza soldi da mantenermi totalmente le spese per l’università. >>

In quel momento, Kemuri entra portando la loro colazione su un vassoio. Ha quasi raggiunto il tavolo, quando Henka si gira verso di lei e incomincia a parlare.

<< Capisco. Immagino che gestire un hotel abbia parecchi costi. >>

Kemuri, avendo sentito l’ultima frase di Hana, incomincia a sospettare delle parole del ragazzo. Aggrotta le ciglia e apre le orecchie, pronta a captare le prossime parole del discorso. Hana, gli risponde, abbastanza stupita.

<< Qua… Quale hotel scusa? >>

Henka, non afferrando la situazione, incomincia a ridere di gusto.

<< Ma come quale hotel. Questo no!?”

Hana, improvvisamente, sbianca e incomincia a sudare freddo. Kemuri, imbestialita, afferra il vassoio per un fianco e fa per colpire Henka. La colazione si ribalta, cadendo a terra, e il vassoio metallico colpisce il ragazzo alla testa.

<< Come hai fatto a scambiarmi per sua madre!? Quanti anni credi che abbia!? >>

Henka, toccandosi la testa dove sente il sangue pulsare in modo anormale, le risponde come nulla fosse accaduto.

<< Beh… Qua… >>

La donna lo colpisce altre volte in testa, piegando il vassoio.

<< Stai zitto idiota! >>

Il ragazzo cerca di pararsi con le braccia mentre continua a chiedere scusa. Sbollita la rabbia, Kemuri lascia cadere il vassoio e torna in cucina a preparare di nuovo la colazione. Hana, ancora traumatizzata, si avvicina e si copre la bocca per parlare all’orecchio di Henka. Il ragazzo, capendo, si avvicina e la ascolta.

<< Lei è mia zia paterna, non mia madre. Devi sapere che ha passato tutta la sua vita a seguire il suo sogno di aprire un hotel. E’ ancora giovane, ma il suo modo di fare da casalinga fa spesso fraintendere la sua età. E’ molto sensibile su quest’argomento. Quindi, evita di tirare fuori di nuovo questo argomento. >>

Henka, facendo cenno con la testa, fa capire di avere inteso. I due si tornano a sedere normalmente, mentre si sentono i fornelli della cucina che riprendono a funzionare. Dopo qualche secondo di silenzio, Hana guarda oltre la porta e saluta qualcuno.

<< Buon giorno! Come mai svegli così presto? >>

Henka, girandosi, vede le due persone appena entrate nella sala da pranzo. Il primo è un uomo anziano. E’ alto un metro e cinquantacinque centimetri, particolarmente ingobbito. La sua carnagione è quella tipicamente giapponese, tendente al chiaro. Braccia e gambe sono secche e, almeno all’apparenza, fragili. Il collo è proporzionato al resto del corpo, ma tende leggermente in avanti, come fosse perennemente proteso. Il viso, solcato dai segni dell’età, è quello di un tipico giapponese. La bocca, piccola e rugosa, ha una forma leggermente inarcata che ricorda una v. Le guance sono scarne tanto che si riesce chiaramente a vedere gli zigomi sporgenti. Gli occhi sono piccoli e contornati dalle rughe. Sono di colore marrone scuro e spesso semichiusi. I capelli, ormai bianchi, sono relativamente lunghi. Due ciocche all’altezza delle orecchie sono più lunghe e arrivano fino torace, mentre il resto è tirato indietro e fissato in una “coda” a mo di sfera sulla testa. Intorno alla bocca ha una lunga barba che copre soltanto il mento, ma arriva alla stessa altezza delle due ciocche di capelli. Indossa un antico vestito, che gli calza abbastanza largo, con tonalità che vanno dall’azzurro al blu. Ai piedi porta un paio di sandali di legno tipici del Giappone. Ha le mani nascoste dietro la schiena, probabilmente unite in una particolare posizione. E’ lui il primo a prendere parola.

<< Buon giorno, Hana. Per la cronaca, mi sono svegliato per il fracasso che facevate qua sotto. Un anziano non può dormire con quel baccano. Abbiate un po’ di rispetto. >>

L’altro è un ragazzo. E’ alto circa un metro e settanta. Ha una carnagione abbastanza chiara ed ha lineamenti tipicamente giapponesi. E’ abbastanza magro e privo di muscoli. Braccia e gambe sono magre e prive di muscoli. Le mani hanno dita lunghe e sottili e con calli all’altezza delle punte. Il collo è proporzionato al resto del corpo, anche se la sua sottigliezza lo fa sembrare più lungo. Il viso ha tratti tipicamente giapponesi. Ha gli occhi blu, di un colore che ricorda molto l’oceano. Indossa degli occhiali dalla montatura nera e spessa. I suoi capelli sono di un colore marrone chiaro, quasi biondo. Li tiene legati all’altezza della nuca con un codino lungo all’incirca cinque centimetri. La fronte è perennemente scoperta; sparte per qualche ciuffo sfuggito all’elastico. Ha un pizzetto sul mento, lasciato molto naturale, mentre il resto del volto è privo di barba. Indossa un paio di jeans di colore azzurro chiaro e una maglia a maniche corte arancione. Ai piedi ha un paio di scarpe dello stesso colore della maglia. Porta sempre un orologio nero al polso sinistro. Il ragazzo entra nella stanza, evitando il vecchio, e si lancia su Hana. Non le permette nemmeno di reagire e si avventa su di lei, abbracciandola. La ragazza ricambia, anche se non sembra molto convinta.

<< Ciao Hana! Hai dormito bene stanotte? >>

Lei, scocciata, sbuffa e gli risponde.

<< Si si, benissimo. Grazie. >>

Henka è rimasto ad osservare la scena, stupito di quanto la ragazza si possa dimostrare insensibile, a differenza della persona che si lascia trascinare dalle emozioni che ha conosciuto prima. Nel frattempo, il vecchio si è avvicinato al ragazzo e comincia a parlargli.

<< Tu sei nuovo, vero? Mi presento. Sono l’ex ammiraglio della più grande flotta navale giapponese della seconda guerra mondiale. Piacere di conoscerti. Mi raccomando, poche riverenze. Chiamami semplicemente con il mio nome, Uso. >>

Henka, nonostante abbia percepito perfettamente le parole del vecchio, non riesce a trattenersi dal mostrargli un minimo segno di rispetto. Si alza dalla sedia e fa un leggero un inchino, mentre si presenta.

<< Piacere di conoscerla ammiraglio. Mi chiamo Henka Gansaku. >>

Il vecchio, come inebriato da quel rispetto, ridacchia in strano modo, prima di rispondergli.

<< Eh eh eh. Ti ho detto che puoi chiamarmi semplicemente Uso, ma grazie del rispetto che porti verso un eroe di guerra. Si vede che sei stato ben educato. >>

A quel punto, Kemuri esce per metà dalla porta della cucina. Sembra ancora infuriata e agita un mestolo mentre parla all’anziano.

<< Uso, finiscila di fare l’idiota. Non ascoltarlo Henka. Non è nient’altro che un pensionato che fa qualsiasi lavoro gli venga assegnato. Non ha mai fatto una carriera di simile importanza. Si diverte solamente ad inventare balle. >>

Henka non capisce. Uso riprende a fare la sua strana risata, prima di parlare.

<< Eh eh eh. Su Kemuri. Non essere così scontrosa. Mi stavo solamente divertendo un po’. Non ti sei offeso vero, Henka? >>

Lui, non sapendo bene come rispondere, si limita a ridacchiare a sua volta e fare un cenno di dissenso con il capo.

<< Non si preoccupi. Non mi offendo per così poco. >>

Il vecchio, dopo un’altra risata delle sue, va a sedersi tra Hana ed Henka, a capotavola. In quel momento, gli occhi del ragazzo cadano sul giovane ancora abbracciato ad Hana, sconfitta. Lo sta squadrando da capo a piedi con un’aria torva e sospettosa. Poi, staccandosi dalla ragazza, si avvicina ad Henka. Il giovane gli tende la mano. Henka risponde con una stretta di mano.

<< Mmm… Io sono Gita Shisshi. Piacere di conoscerti. >>

Nonostante la stretta di mano, la voce del ragazzo è dubbiosa e sospettosa. Henka, arrendendosi nel tentare di capire cosa passa nella mente del giovane, si presenta a sua volta.

<< Henka Gansaku, piacere. >>

Gita, tenendo la mano del ragazzo stretta si avvicina a lui per squadrarlo meglio. Henka si spaventa e cerca di allontanarsi, lasciando la presa. Il giovane, poi, si allontana e si siede accanto ad Hana, che fa una faccia sconsolata. In quel momento arriva anche Kemuri, portando le colazioni di Henka e Hana. Quando appoggia il vassoio consegna il cibo ai rispettivi proprietari, mentre parla.

<< Uso, questa è la tua colazione. L’avevo fatta per me inizialmente, ma sembra che dovrò mangiare dopo. Spero che vada tutto bene. Cucino il resto e torno subito. >>

Il vecchio ringrazia, mentre la donna torna nella cucina. Poi, spuntando di nuovo dalla porta, si rivolge alla nipote.

<< Hana, perché non accompagni Henka a fare un giro in città quando avete finito? >>

La ragazza risponde subito, felice per quell’idea.

<< Si! E’ davvero una bell’idea. Che ne dici Henka, ti va di fare un giro in centro? >>

Henka, sorridendo, le risponde.

<< Ma certo. Avevo già visto qualcosa ieri, ma non sapevo bene come muovermi. Sicuramente ci sono un sacco d’altri posti da conoscere. >>

Quasi interrompendo Henka, Gita prende parola, con voce disperata.

<< No! Non è giusto! Dai volevo venire anche io, ma ho un esame domani. Non possiamo rimandare a tra due giorni? Dai Hana, fallo per me. >>

Lei, scocciata, risponde.

<< Su Gita, deve vedere qualcosa della città. Sarà per un’altra volta. >>

Il ragazzo, demoralizzato, si limita a rispondere con un “ok” e si ammutolisce. Rimane con lo sguardo fisso a terra e un’aura di tristezza intorno a se fino a quando Kemuri arriva con la colazione. I cinque mangiano e bevono insieme. Poi, quando han finito, Hana e Henka escono di casa per raggiungere il centro.
 
Top
Blecco.
CAT_IMG Posted on 25/6/2009, 22:10




Torna al sommario


Cap. 8



Hana apre la porta e raggiunge il patio dell’edificio. Henka si guarda intorno, osservando con attenzione l’ambiente intorno a lui. In confronto alla sera prima il posto sembra totalmente diverso. Il sole illumina tutto il lotto, permettendo al ragazzo di notare tutto fin nei minimi particolari. Il patio è in legno chiaro, coperto da una veranda dello stesso materiale. Le sei sedie e il tavolo sono leggermente più scure e dall’aspetto campestre, perfetto nel dipinto che forma la vegetazione del giardino. Una serie di piante di svariate dimensioni, difatti, creando una specie di boschetto. Il giovane rimane incantato da quella vista. Dopotutto, lui ama molto la natura. Hana, abituata alla vista, prosegue lasciandolo indietro. Cammina sul selciato che conduce al cancello, quando si accorge dell’assenza del ragazzo. Si volta indietro e lo chiama a gran voce.

<< Allora? Arrivi? >>

Henka, sentendola, si gira verso di lei e accelera il passo per raggiungerla.

<< Uh? Si, si! Scusa mi ero un po’ perso via. >>

Lei, divertita, trattiene una risatina e preme il pulsante per aprire il cancello.

<< Si, ho notato. E’ normale; anche io rimanevo sempre affascinata da quella vista. Sembra un’oasi di foresta in mezzo al cemento. >>

Lui fa un cenno d’assenso. Poi, la segue oltre la cancellata. Il discorso, per un po’, muore totalmente e Henka si limita a seguire la ragazza fino alla fermata del bus. Quando arrivano, Henka si rende conto di essere nello stesso posto della sera prima.

<< Ma questa è la fermata di ieri sera! Non posso crederci che sia così vicina all’albergo. Diavolo ho girato per due ore nel buio per trovarlo! >>

La ragazza sorride e gli risponde, indicando il bus che si è appena fermato davanti a loro.

<< Ih ih. Si vede che non sei di queste parti. Ci farai l’abitudine tra qualche giorno. Ora dobbiamo salire sul pullman. E’ quello che è appena arrivato. >>

Il ragazzo, dunque, la segue oltre le porte del mezzo. Si siedono in due sedili vicini e continuano a parlare. È sempre il giovane a prendere parola.

<< Sai. La prima volta che ti ho notato, ieri sera, era proprio sul pullman. >>

Lei, stupita, arrossisce e gli risponde.

<< Davvero? Come mai? >>

La ragazza, probabilmente, ha frainteso le parole di Henka che gli da una risposta inaspettata, almeno per lei.

<< E me lo chiedi anche? Eh eh. Ti sei praticamente lanciata dentro l’autobus quando ha aperto le porte. Credo che tutti i passeggeri ti abbiano notato. >>

Lei, ricordandosi delle sue azioni della sera prima, distoglie gli occhi, vergognandosi. Henka, divertito, continua a parlare.

<< Eh eh. Dove hai intenzione di portarmi? >>

Lei risponde, continuando a guardare fuori del finestrino.

<< Possiamo andare a fare un giro nei negozi che ci sono in centro. Quando è ora di mangiare andiamo in qualche fast food e poi, se ti va, ci prendiamo un gelato al parco. C’è un baracchino dove lo fanno buonissimo, soprattutto quello alla fragola. >>

Lui, schifato, fa per allontanarsi.

<< No ti prego! Tutto ma non il gelato alla fragola. Odio le fragole! >>

La ragazza ride, divertita dal suo comportamento. I due continuano a parlare e divertirsi fino a quando il bus arriva a destinazione, lasciandoli davanti alla stazione centrale. La ragazza gli indica un viale alberato in lontananza ricco di negozi. I due s’incamminano per raggiungerlo, quando una voce conosciuta ferma Hana.

<< Ehi! Ciao Hana! >>

La ragazza si volta in direzione della voce familiare e vede una delle sue amiche. E’ Yui, con il suo ragazzo al seguito. La coppietta si avvicina, mano nella mano, ai due. Le due ragazze incominciano a parlare e Yui punzecchia Hana come al solito.

<< Ciao Yui, come mai qua in centro? >>

<< Siamo andati a fare un giro per i negozi. Piuttosto, tu che ci fai qui? E chi è quel ragazzo? >>

Staccandosi dal ragazzo, si mette accanto all’amica e le da dei colpetti col gomito sul fianco. Hana, capendo cosa intende l’amica, arrossisce e non sa che fare per uscire da quella situazione. Henka, divertito, cerca di trattenere le risate, ma non ci riesce. Si copre la bocca con una mano, ma il risultato non è dei migliori e la ragazza sembra innervosirsi. Con tono seccato risponde all’amica.

<< E’ uno dei clienti di mia zia! E’ arrivato ieri notte e gli sto facendo visitare la città! Ora ti saluto, ciao! >>

Yui rimane stupita dal comportamento dell’amica. La conosce da anni, ma non l’ha mai vista reagire a quel modo. Confusa, fa spallucce e se ne va salutando con la mano. Nel frattempo, Hana si è girata e si è allontanata dalla parte opposta. Henka, vedendo la reazione dell’amica, raggiunge Hana e le parla per cercare di farla calmare.

<< Su Hana, non c’era bisogno di reagire così. Ha solamente frainteso… >>

Lei, indispettita, si gira dall’altra parte e s’allontana anche da lui. Solitamente non reagisce così, ma dopo che Henka ha riso di lei, non è più riuscita a trattenere il nervoso. Yui la mette sempre in difficoltà, soprattutto in simili situazioni. Normalmente si sarebbe limitata a vergognarsi a morte, ma ora le cose sono diverse. La ragazza continua con la scenata per qualche minuto, poi decide di smetterla.

<< Senti, Henka. E’ meglio se lasciamo perdere per ora. Pensiamo solo a divertirci un po’. >>

Il ragazzo, felice nel vederla un po’ calmata, le fa un cenno d’assenso e la segue dentro svariati negozi. Passa così qualche ora e i due vanno a mangiare in un fast food. Finito il veloce pranzo, decidono di andare nel parco cittadino a cercare un po’ di riparo dal calore del primo pomeriggio. Si siedono su una panchina all’ombra di un grande albero. Henka lancia le braccia indietro, in una posizione che a prima vista non sembra molto comoda. Hana, invece, si mette a guardare due uccellini che volando tra le chiome degli alberi e incominci a parlare.

<< Henka, volevo scusarmi ancora per stamattina. Da quando mi hai detto quelle cose ho riflettuto molto sulla tua situazione e mi dispiace di aver reagito a quel modo. >>

La ragazza si gira verso il giovane, che le risponde con un sorriso.

<< Non ti preoccupare. La tua reazione è stata più che normale. >>

<< Non sono stata gentile. Ho cercato di rivedere nella mia mente quell’occhio. Più rivedo quell’occhio; meno mi fa paura. Non è nient’altro che un occhio dal colore particolare…>>

Girandosi verso di lui, gli scosta il grosso ciuffo che copre l’occhio e lo osserva. Ha un’espressione tranquilla e leggermente malinconica, molto diversa di quella della sera prima.

<< In un certo senso è anche carino, Akame. >>

Henka, stupito, non capisce l’ultima parola della ragazza. Le chiede di ripetere.

<< Come hai detto, scusa? >>

<< Akame*. Mi sembra un nomignolo che ti calza a pennello. Ih Ih >>

Lui scoppia a ridere, divertito dal soprannome che gli è stato affibbiato.

<< Ah ah! Si, si. Mi calza decisamente a pennello. Ora, che ne dici di tornare indietro? Vorrei sistemare un po’ di cose in camera. >>

La ragazza fa un cenno d’assenso con la testa e s’incamminano fuori del parco. I due stanno camminando per le vie del centro, in direzione della fermata dell’autobus, quando passano di fianco ad un vicolo. Urla, schiamazzi e lamenti vari provengono da esso e i ragazzi s’incuriosiscono. Quando si girano, i due vedono una scena che avrebbero preferito evitare. Due uomini dall’aspetto spaventoso stanno pestando a sangue un uomo indifeso.

Note:

* Akame: Occhio (Me) rosso (Aka)
 
Top
Blecco.
CAT_IMG Posted on 16/7/2009, 07:49




Torna al sommario


Cap. 9



Henka e Hana si sono voltati verso un vicolo, da cui provengono strani rumori. Un tonfo sordo è causato dal corpo di un uomo che cade a terra. Lo sconosciuto è riverso sulla pancia, con la faccia poggiata per terra. Ha dei capelli neri corti e disordinati, probabilmente per le percosse che sembra aver subito. Tossisce un paio di volte e sputa del sangue dalla bocca. Un braccio è incastrato sotto il suo corpo in una posizione leggermente innaturale, mentre l’altro tenta di proteggere il volto. Indossa dei vestiti abbastanza comuni, jeans e maglietta. Gli occhi dei due ragazzi s’incrociano con quelli che sembrano i responsabili del pestaggio, due ceffi vestiti di tutto punto. Indossano delle giacche nere su pantaloni dello stesso colore. Sulle braccia si notano i risvolti di una camicia bianca. I polsini sono aperti, probabilmente per evitare di sporcare il vestito. Le scarpe di uno dei due, inoltre, sono sporche di quello che sembra sangue. La macchia rovina pesantemente le preziose calzature di nero lucido. Uno dei due porta un cappello nero, simile ad una bombetta ed ha una lunga coda di cavallo bruna che gli scende dietro la schiena. L’altro, invece, è completamente pelato. Senza alcun’espressione, osservano muti i due ragazzi. Henka, vedendo quella scena, s’infuria. Se c’è una cosa che odia con tutto se stesso a questo mondo, sono i prepotenti. Questo, però, non sembra un semplice caso di bullismo. Hana ne è certa; quei due tipi non scherzano. Spaventata, prende Henka per una manica e cerca di trascinarlo via.

<< Hei… A… Andiamocene. E’ meglio fare finta di nulla. >>

Il ragazzo, però, non sembra aver intenzione di muoversi. Agita il braccio, liberandosi con facilità.

<< No Hana. Hai visto anche tu quello che sta succedendo qui. Tu vai a chiamare la polizia. Io penso a questi due. >>

La ragazza, spaventata, gli risponde urlando, scordandosi per un attimo che anche i due la possono sentire, così.

<< Guarda sul collo del pelato! Ha un tatuaggio a forma di serpente! Guarda come sono vestiti! Non riesci a capire chi sono? >>

Il pelato si accarezza la testa, come ferito nell’orgoglio, mentre l’altro accenna un sorriso divertito, alzando lo stuzzichino che tiene tra la testa.

<< Yakuza. Non ci vuole un genio per capirlo. >>

Il mafioso sputa lo stecchino per terra, sempre più divertito. Anche se i suoi occhi sono coperti da un grosso paio d’occhiali da sole, si riesce ad immaginare il suo sguardo carico d’eccitazione. Quel piccolo imprevisto gli pare perfetto per sfogare ancora un po’ la sua voglia di fare a botte. Ormai, il loro obiettivo è già ridotto ad uno straccio. Infierire oltre, potrebbe compromettere i risultati del lavoro fatto fino ad ora.

<< Ammetto che non è un travestimento perfetto, ma bisogna essere proprio idioti per pensare di poterci tenere testa. Hai voglia di fare l’eroe ragazzino? Forza, ti sto aspettando >>

Il pelato scoppia a ridere, pregustando la scena che seguirà che momenti concitati. Incrocia le braccia e fa segno all’amico di fare pure. Non ha intenzione di intervenire. Uno di loro basta e avanza per occuparsi di uno sbruffone qualunque. Hana, spaventata, non riesce nemmeno a parlare e tentare di far ragionare l’amico. Si limita a stare immobile fuori del vicolo, mentre osserva Henka che si avvicina ai due criminali. Non va ad avvisare nessuno. Non ci riesce. Le sue gambe sono paralizzate al solo pensiero di una pallottola nella schiena. Sicuramente, se prova a scappare, uno degli Yakuza non penserà due volte prima di spararle. Henka, al contrario, non sembra affatto spaventato. Si avvicina al tipo col codino con le braccia in guardia. L’uomo sembra soddisfatto di non aver trovato uno sprovveduto, come mostra un altro dei suoi sorrisini, ma sembra convinto di essergli superiore. Raggiunge il ragazzo camminando con le mani in tasca, sottovalutando il suo avversario. Gli sferra un pugno diretto alla pancia con la sinistra, tenendo l’altra in tasca, portandosi al suo fianco. Sorride, quando vede il ragazzo piegarsi in avanti. Sbuffa. Poi, sente la mano dolergli improvvisamente.

<< Ma che …!? >>

Indietreggia, cercando di tirarsi a dietro il pugno, ma non riesce. Henka, abbassando le mani, ha bloccato il pugno dell’avversario. Poi, ha chiuso la sua mano in una morsa d’acciaio, tanto da renderla insensibile. Gli ci sono voluti un po’ di secondi per avere qualche segnale del dolore. Il pugno è stretto tra le mani del ragazzo, in un incrocio di carne indefinibile. Una goccia di sudore scende sulla tempia del mafioso, visibilmente preoccupato e stupito dalla situazione.

<< Chi diavolo sei? >>

Il pelato non capisce quello che sta succedendo e rimane ad osservare i due. Si piega leggermente di lato, cercando di focalizzare meglio la scena, ma dalla sua posizione non vede altro che la schiena dell’amico.

<< Ehi… C’è qualcosa che non va? >>

L’uomo col codino vorrebbe respirare, ma l’espressione sulla sua faccia fa capire che è troppo occupato a sopportare il dolore immenso alla mano. La sensibilità gli è tornata completamente e con essa le fitte lancinanti che percorrono il corpo quando si rompono le ossa. Tutte le sue dita sono torte in posizioni innaturali, come se fossero finite tra gli ingranaggi di una macchina. Hana vede parzialmente il volto dell’uomo, non capendo se sta soffrendo o è innervosito. La situazione è poco chiara per tutti, tranne che per i due partecipanti. Henka strattona lo Yakuza, portandolo contro di sé. Alza la testa, per guardarlo negli occhi. La differenza d’altezza tra i due, ora che sono così vicini, è impressionante. Henka arriva solo alla base del collo del mafioso. Per guardarlo negli occhi, è costretto a girare la testa completamente verso l’alto, come per vedere il cielo. Il ciuffo sopra l’occhio sinistro, trascinato dalla gravità, si apre lentamente, quanto basta per far intravedere lo spaventoso occhio tra i capelli. Quando lo vede, l’uomo rimane catturato da quell’immagine e il suo respiro accelera incessantemente. Incomincia a domandarsi come c’è finito in quella situazione. Spaventato, ripete la domanda già fatta al giovane sconosciuto.

<< Ti ho chiesto chi sei! >>

Henka, capendo la situazione, avvicina l’occhio rosso e fa un sorriso a trentasei denti. Spera che la prospettiva da cui lo sta guardando l’uomo, e l’influsso psicologico causato dal dolore, bastino per deformare la sua immagine abbastanza da spaventarlo a morte. Qualche secondo dopo, ha la conferma che il suo piano a funzionato. L’uomo trema e non sembra aver più intenzione di chiacchierare. Henka gli molla la mano e, chiudendo la destra in un pugno, lo colpisce al mento. La testa dello Yakuza si alza, trascinata dal colpo, e lo costringe a guardare il cielo. Rimane destabilizzato da quel potente gancio e ricade all’indietro, come un corpo morto. Non tenta nemmeno di attutire la caduta, sbattendo la schiena con forza. Chiude gli occhi per il dolore e stringe i denti per soffocare un urlo. Poi, Henka gli appoggia un piede sullo sterno. Preme con forza, riuscendo quasi a soffocarlo. Il pelato osserva la scena immobile. Non riesce a capire quello che sta succedendo e indietreggia spaventato. Hana è altrettanto stupita, ma affatto tranquilla. Henka si piega in avanti, per mettersi perpendicolare al volto dell’uomo col codino, spostando tutto il peso sulla sua cassa toracica. Lo Yakuza porta le mani alla gamba del ragazzo, cercando di sollevarla, mentre con la bocca cerca di respirare. Il suo fiato si fa sempre più corto man mano che il peso aumenta. Quando il ragazzo riesce a vedere negli occhi il criminale, finalmente gli risponde.

<< Mi chiamo Henka Gansaku, ma puoi chiamarmi… >>

Con un sorriso, porta la mano sull’occhio sinistro. Con un movimento solleva lentamente il ciuffo, mostrando chiaramente l’occhio dalla colorazione più unica che rara.

<< … Akame. >>

E’ la prima volta che usa quel nome, ma gli piace l’effetto che fa. Può leggere negli occhi dello Yakuza il terrore. Un nome del genere, sicuramente, funziona perfettamente per dare enfasi alla sua strategia di spaventare i suoi avversari. Spesso funziona e permette di liberarsi di persone pericolose senza rischiare troppo. Il pelato, però, non sembra impressionato e non pare intenzionato ad ascoltare di nuovo il teatrino del ragazzo. Porta una mano dietro la schiena ed estrae una pistola dalla fondina. La porta davanti a sé. Poi, con l’altra mano, carica il colpo e la punta verso il ragazzo. Henka, sentendo il clic del caricatore, si volta verso di lui. Suda freddo. Nessuno dei due si sarebbe aspettato di essere messo K.O. da un ragazzino. Invece, ora uno di loro due è disteso a terra con la bocca carica di sangue e senza qualche dente. L’uomo col codino continua ad agitarsi, ma dai movimenti scoordinati dalle braccia il ragazzo capisce che è arrivato agli sgoccioli. Si solleva, togliendo il piede dallo sterno dell’uomo, che rimane per terra a cercare di inalare un po’ d’aria. Il pelato, sorridendo, incomincia a parlare, mentre punta la pistola alla testa del giovane.

<< Ok, ragazzino. Complimenti ti abbiamo sottovalutato. Ora, però, vattene se non vuoi che ti ammazzo. E non dimenticare che non hai mai visto nulla. >>

Henka, senza mostrare un filo di preoccupazione, gli sorride. L’uomo s’innervosisce ancora di più e fa un gesto con la pistola, come per mimare uno sparo.

<< Che hai da sorridere moccioso!? Se non fai come ti ho detto ti sparo un po’ di piombo tra gli occhi. >>

Henka scatta in avanti e il pelato spara un colpo. Il proiettile lo sfiora, senza lasciargli bruciature, e infrange contro il cemento. L’arma, stranamente, non provoca nessun rumore, o quasi. Pur sprovvista di silenziatore, quella pistola è riuscita ad attutire quasi completamente il rumore dello sparo. Il ragazzo suda freddo a quella scoperta. Era convinto che non avrebbe mai sparato perché avrebbe attirato la polizia, ma ora la situazione è nettamente cambiata. Deglutisce, cercando i non pensarci e si lancia all’attacco. Pianta un piede a terra e, facendo perno su quest’ultimo, sferra un calcio alla testa dell’uomo. Lo colpisce col collo del piede, scaraventandolo contro il muro del vicolo. Sbattendo con il volto, l’uomo rompe gli occhiali. Innervosito, li lancia per terra e si pulisce gli occhi dal sangue che scende dalla fronte. La pistola gli è caduta lontano durante lo scontro e, avendo già visto la velocità del giovane, sa di non avere possibilità di recuperarla. Portando le mani in posizione di guardia, decide di affrontarlo a mani nude.

<< Ho deciso di fare sul serio con te. Avresti fatto meglio ad ascoltarmi, … Akame. >>

A quanto pare, il nomignolo datogli da Hana ha fatto presa sull’uomo. Lo Yakuza si lancia all’attacco, cercando di sferrare un calcio diretto alla bocca dello stomaco del giovane. Alza la gamba destra e la porta all’altezza delle anche, piegandola su se stessa. Poi, distendendola con un unico movimento, sferra un potente calcio. Henka, però, è riuscito a capire le sue intenzioni, dato il tempo d’esecuzione del colpo, e si è preparato a pararlo. Avvicinando le mani e aprendole, a formato una perfetta trappola. Quando il piede tocca i palmi del giovane, le dita si richiudono come la morsa d’acciaio di una trappola per orsi, intrappolandolo. Afferrando con la destra la caviglia dell’uomo, quest’ultimo è costretto a saltellare per mantenere l’equilibrio. Henka, invece, è del tutto libero di contrattaccare. Alza il gomito sinistro e lo riabbassa con una velocità spaventosa, colpendo la rotula del ginocchio del pelato. Immediatamente, la gamba dell’uomo prende una forma innaturale, simile a quella delle gambe di uno struzzo. Le ossa del suo ginocchio si frantumano, mentre la gamba s’inverte pericolosamente. L’uomo scoppia in un urlo disumano, mentre si porta le mani al ginocchio ferito gravemente. Henka lascia la presa, osservando con sufficienza l’uomo cadere a terra. Il criminale non sembra neanche accorgersi della botta alla schiena, quando colpisce l’asfalto, troppo impegnato a sopportare il dolore alla gamba. Sconfitti i due, decide di aiutare il malcapitato, ancora steso a terra qualche metro più avanti.

<< Hana. Forza, vienimi ad aiutare e chiama un’ambulanza. Potrebbe avere qualche osso rotto. Hai chiamato la polizia per questi due? >>

Cammina verso il corpo esanime dell’uomo mentre aspetta la risposta di Hana, ma non sente la sua risposta. Flette le gambe per abbassarsi e carica lo sconosciuto sulle sue spalle, quando decide di richiamare l’amica.

<< Allora Hana! Che fine hai fatto? >>

Voltandosi verso la giovane, rimane terrorizzato alla vista della canna di una pistola puntata a pochi centimetri dalla sua fronte. Il primo dei due, quello col codino, si è ripreso. Tiene la mano rotta davanti alla bocca, tentando di coprire l’orrendo spettacolo offerto dalla sua bocca, ma offrendone uno anche peggiore. La mano sana, invece, tiene un dito premuto contro il grilletto, pronto a sparare da un momento all’altro.

<< Pezzo di merda. Ti sei divertito; non è vero? Non ho mai sentito il tuo nome, ma hai fatto male a dircelo. Torneremo per vendetta. Per questa volta ti risparmio. Abbiamo bisogno di cure immediate a causa tua. La prossima volta non la passerai liscia. >>

Henka, capendo di non poter fare niente con quel peso morto addosso, si scosta. Lo Yakuza solleva di peso l’amico, portandolo sulla sua schiena. Il pelato, cercando di sopportare il dolore, stringe le braccia attorno al suo collo, per rimanere sollevato. I due se ne vanno dalla parte opposta del vicolo, scomparendo con la pistola ancora puntata al giovane. Hana, terrorizzata, raggiunge l’amico.

<< Henka! Stai bene! Mio dio; sei impazzito!? Quelli erano criminali… Ehi, ma quest’uomo è... >>

Hana, a quanto pare, ha riconosciuto l’identità della persona malmenata, vedendo il suo volto poggiato sulle spalle del giovane.
 
Top
Blecco.
CAT_IMG Posted on 17/7/2009, 12:21




Torna al sommario


Cap. 10



I raggi del sole, attraversando le ampie finestre della villa in stile ottocentesco, illuminano le decorazioni dorate della mobilia. Le maniglie della grossa credenza francese riflettono la luce, abbagliando chi tenta di ammirarle. Tutta la stanza è arredata con oggetti sfarzosi appartenuti ai nobili francesi prima della rivoluzione. Manufatti di un valore inestimabile e di una bellezza ineguagliabile. Sotto un grosso quadro raffigurante Napoleone, si trova un divano di legno dorato. I cuscini sono rivestiti di un sottile velluto rosso, di un colore simile alle tende di seta, ricamate da cuciture dorate. Su di esso, sta seduto un uomo dall’aspetto inquietante. Una vera e propria montagna d’uomo. Le gambe del prezioso divanetto sembrano piangere per lo sforzo di sostenerlo. Alto almeno due metri, è molto grasso. La sua carnagione è quella del tipico giapponese, leggermente più chiara. E’ molto sudato e la pelle sembra traslucida. Si passa un grosso fazzoletto sulla fronte per asciugarla, ma invano. Il braccio tozzo e corto si muove a fatica per tornare alla posizione originale, dovendo aggirare la grossa pancia. Le gambe, altrettanto corte, toccano appena terra. La bocca è aperta, mentre respira affannosamente. Il grosso doppio mento gli impedisce di respirare normalmente. Le guance molli gli danno un aspetto ancora più gonfio e affaticato. I capelli che gli sono rimasti, a causa della stempiatura, sono perfettamente pettinati all’indietro e unti a causa dell’eccessiva sudorazione. E’ vestito di tutto punto. Un completo italiano fatto su misura dotato di giacca e pantaloni grigio scuro con righe più chiare. Sotto di esso, una camicia bianca con cravatta. Alza ancora il braccio per asciugarsi la fronte, mostrando una macchia di sudore sotto l’ascella. Poi, muovendo la bocca lentamente, si rivolge ai suoi ospiti.

<< Vorreste rispiegarmi, cosa cazzo vuol dire che un ragazzino vi ha conciato così?!! >>

I due Yakuza sono seduti sul divano gemello a quello dell’uomo. Le ferite della battaglia sono ancora aperte e il pelato ha la testa poggiata su uno dei braccioli, lasciando all’amico il compito di parlare. Stringe i denti, tentando di sopportare il dolore mentre attende l’arrivo dei medici. La gamba, piegata in un angolo innaturale, da un’immagine orrenda dell’uomo, che corrisponde perfettamente alla sua situazione attuale. L’uomo col codino, invece, è seduto normalmente e tiene la mano, ridotta ad una poltiglia, avvolta nella giacca nera. Ormai si è abituato al dolore. Agitando il braccio sano, risponde all’uomo.

<< Capo non era un ragazzo qualunque! Aveva una forza spaventosa e non abbiamo potuto fare assolutamente nulla contro di lui! Ci ha preso alla sprovvista. Inoltre, prima ha detto di chiamarsi Henka Gansaku e, poi, di chiamarlo Akame. Può essere solo una mia impressione, ma credo che sia più di un semplice ragazzino. Potrebbe essere un qualche pericoloso assassino mandato da un’altra famiglia. >>

Il gigante alza la voce, interrompendo il sottoposto con la sua voce tonante. I muscoli del collo, apparentemente assente perché corto e nascosto dalla carne, si contraggono per lo sforzo.

<< Hai parlato abbastanza. Non m’interessano l’identità di quel moccioso o i tuoi pensieri; voglio solo risolvere questo problema. Ora, pensate solamente a guarire. Troveremo vendetta da parte vostra. >>

In quel momento, dalla porta, entra un cameriere con un vassoio da tè. E’ alto e snello, dal portamento elegante e visto di tutto punto. Regge, al braccio, un panno bianco e un vassoio carico di tazzine. Vedendolo, l’uomo riprende a parlare.

<< Mentre attendiamo che arrivino i medici della clinica privata, che ne dite di una tazza di the? >>

Sul volto dell’uomo si dipinge un grosso sorriso, vagamente sospetto. Il pelato non risponde nemmeno, mentre l’altro agita una mano in segno di dissenso.

<< Mi scusi boss, ma non è proprio il momento. La mia bocca duole incredibilmente. >>

Mentre l’uomo con la coda parla, il gigante getta un’occhiataccia alla sua bocca, disgustato dall’apparenza delle gengive sanguinanti e dai denti assenti. Poi, mostrando un’espressione parecchio seccata, riprende a parlare. Il cameriere, nel frattempo, poggia il vassoio sul tavolino tra i due divani.

<< Veramente. Rimarrei profondamente dispiaciuto se non accettaste una tazza del mio the. Mi è costato parecchio importarlo dall’India. >>

Lo Yakuza col codino, capendo che è meglio non discutere, fa un cenno d’assenso e tira un colpo al pelato. Non risponde. Gliene tira un altro e lui si alza lentamente. Apre gli occhi a fatica e allunga la mano per afferrare la tazzina. Mentre se lo porta alla bocca trema visibilmente, così l’amico gli da una mano a berlo. Lo beve tutto in un sorso e tossisce, poi, ringrazia a fatica. Anche gli altri due lo imitano e ingollano le proprie tazzine. Il capo è visibilmente seccato, ma l’uomo col codino cerca di farlo calmare con svariati complimenti sul the. Sa quanto è fissato per queste cose. Il gigante non fa una piega e si torna a sdraiare sul divano, poggiandosi allo schienale. Poi, con una mano tira indietro la manica della giacca e fa dei risvolti alla camicia bianca. L’uomo col codino lo guarda confuso, ma non osa proferire parola. Poi, quando il cameriere gli si avvicina ed estrae una siringa, i sospetti incominciano a serpeggiare nella mente dell’uomo.

<< Ma che diavolo… >>

Il cameriere parla per la prima volta da quando è entrato. La sua voce è elegante come il suo portamento e sembra infastidito dalle parole dell’uomo col codino.

<< My Lord, è sicuro che sia necessario? >>

Il gigante risponde, mentre il suo sguardo s’incrocia con quello dello Yakuza. Il suo volto si è imperlato di sudore, riuscendo ad immaginare la situazione. Al contrario, il capo sembra divertito e fa una risata sommessa.

<< Ku ku. E’ vero che sono immune a parecchi veleni, ma preferisco non rischiare. Forza, inietta l’antidoto. >>

Il maggiordomo, limitandosi a rispondere con un cenno, infila la siringa nel braccio del gigante. Lo Yakuza è percorso da brividi per tutto il corpo e incomincia a ripercorrere le immagini della sua vita. Poi, l’amico comincia a tossire. Si gira verso di lui, spaventato. L’amico continua a tossire sempre più forte. Si piega in avanti e incomincia a tossire sangue. Le macchie sul pavimento si fanno sempre più larghe e aumentano di numero. Il pelato fa un sussulto e si ferma per un secondo.

<< Ehi! Ehi! Tutto bene!? >>

L’uomo col codino gli si avvicina e gli afferra le spalle. Il pelato sembra non sentirlo. Fa un altro sussulto e vomita una gran quantità di sangue. Poi, si lascia andare in avanti, accasciandosi per terra, privo di vita. Lo Yakuza è terrorizzato nel vedere la scena e si volta di scatto verso il boss. Non riesce a dire niente, si limita ad avventarsi su di lui nel disperato tentativo di rubare quel che resta dell’antidoto. Il gigante, però, dimostra un’agilità insospettabile e allunga il corto braccio in avanti. Gli afferra il collo con la grossa mano. Si solleva senza troppo sforzo, lasciando l’uomo a mezz’aria. Soffocato dalla presa d’acciaio, lo Yakuza porta le mani al collo, ma non ha nemmeno la forza di ragione. Gli occhi, spalancati, sembrano fuoriuscirgli dalle orbite. La bocca è spalancata in un urlo soffocato. Le dita del gigante penetrano la carne dell’uomo senza sforzo. Quando sente le unghie sporcarsi di sangue, il boss fa un’espressione di disgusto.

<< Avresti fatto meglio ad attendere che il veleno facesse effetto. Era sicuramente meno doloroso. >>

Quando sente che lo Yakuza non fa più resistenza, lascia cadere il corpo a terra, ancora con il segno delle cinque dita nel collo. Pochi secondi dopo, una squadra di medici entra dalla porta, con due barelle e dei sacchi bianchi. Senza aspettare nessun ordine, raccolgono e imbustano i due cadaveri, prima di poggiarli sulle barelle e scomparire dalla stanza. Il gigante si volta il cameriere, che gli porge il panno per asciugarsi la mano sporca di sangue, e gli parla.

<< Chiedi alle domestiche di pulire e non lasciare traccia del sangue. Sai quanto odio le macchie di quella roba. Poi, passa dalla cucina e digli di prepararmi uno spuntino. Tutto questo movimento mi ha fatto venir fame. >>

Il maggiordomo accenna un inchino e cammina verso la porta a passo spedito, quando l’uomo lo interrompe nuovamente.

<< Ah, e chiamami Dokunoaru. Lo voglio nella sala da pranzo tra dieci minuti, insieme al mio spuntino. >>

L’uomo accenna un altro inchino e scompare fuori della porta, mentre il gigante finisce di asciugarsi la mano. Si avvicina ad una delle finestre e osserva i grandi giardini della sua tenuta.

<< Akame? Abura Hebi giura che ti ucciderà per l’infamia che hai fatto alla sua famiglia. >>

Hana, guardando in faccia l’uomo, lo ha riconosciuto subito. Nonostante i grossi lividi e la faccia gonfia, per lei è facile riconoscere il suo insegnante d’educazione fisica, Toshigo Karasu. L’uomo è alto circa quanto Henka, ma il suo corpo sembra più muscoloso. La carnagione è più scura di quella del normale giapponese, essendo olivastra. Il volto, seppur gonfio dalle botte ricevute, è affilato. Gli spigoli sono prominenti e il naso è lungo e appuntito. Per certi versi, ricorda il becco di un uccello. Ha una barba particolare, che gli fa da contorno al volto e termina sul mento con un pizzetto. Il suo colore è lo stesso dei capelli, un nero corvino molto bello. L’uomo riesce a riprendere conoscenza. Sussulta per qualche secondo, prima di tentare d’aprire gli occhi. Quando ce la fa, le iridi color smeraldo s’incontrano con gli occhi di Hana.

<< Hokkoku?! Che… che ci fai qui? >>

Ha un occhio tumefatto e parecchio gonfio, che gli da un aspetto da moribondo. Fa fatica a parlare, ma non sembra avere seri problemi. Hana preoccupata, ribatte immediatamente.

<< Professore, come si sente? >>

Non so se la sente di chiedergli come mai due mafiosi si trovassero con lui. Tempo prima, l’uomo era sparito per diversi giorni e, quando era tornato, i suoi alunni hanno detto che si comportava in modo strano. Hana lo conosceva poco, perciò non ha notato questi cambiamenti, ma ora capisce che avevano ragione. Probabilmente, le cause di quel presunto cambiamento e della sua scomparsa erano i legami con quei criminali. Senza nemmeno aspettare la risposta, ovvia, dell’uomo, afferra il telefono e compone il numero del pronto soccorso. Una donna, dall’altro capo del telefono, le risponde immediatamente. Hana spiega velocemente la situazione, sostituendo i criminali con due semplici teppisti per evitare di causare problemi con la polizia al professore. L’ambulanza arriva in una decina di minuti che si susseguono concitati mentre la donna del pronto soccorso consiglia alla ragazza cosa fare per evitare di aggravare le lesioni dell’uomo. Lo fanno stendere a terra e seguono tutte le indicazioni fino all’arrivo dei paramedici, che lo caricano su una barella. I due riescono a farsi portare con lui all’ospedale. In un quarto d’ora circa, si ritrovano in una sala d’attesa, sperando che le ferite subite dall’uomo non siano gravi. Durante l’attesa, un poliziotto gli ha fatto delle domande per scrivere il verbale e rintracciare i due teppisti. Qualche ora dopo, Toshigo esce dall’ambulatorio con parecchie fasciature. La più grande gli copre completamente l’occhio tumefatto. Un gesso provvisorio copre il braccio sinistro, tenuto su da una benda fissata al collo. Indossa ancora i suoi vestiti, segno che le ferite non sono così gravi da farlo rimanere in ospedale. Hana, quando lo vede, gli corre incontro, preoccupata.

<< Professore, cosa le hanno detto? >>

Divertito dalla premura della ragazza per lui, l’uomo sorride mentre anche Henka si avvicina a lui.

<< Eh eh! Hokkoku, non preoccuparti. Sono più resistente di quello che sembra. Hanno detto che ho solo un osso del braccio incrinato e che devo tenere questo gesso per qualche giorno. Per il resto sono solo lividi e abrasioni. Niente di grave. Piuttosto, volevo ringraziarti per non aver raccontato tutti i dettagli. Ti prego, anche, di non fare domande su quello che hai visto. >>

Poi, rivolgendosi a Henka, continua.

<< Ed evitate di dirlo in giro o sarei veramente nei guai. Scusami se non mi sono presentato, ma ero parecchio indaffarato a soffrire come un cane. Il mio nome è Toshigo Karasu. Sono il professore d’educazione fisica di Hokkoku. Sei tu che mi hai salvato; non è vero? Ti ringrazio. >>

L’uomo accenna un inchino. Henka, però, sente che c’è qualcosa di misterioso in quell’uomo. E’ solamente una sensazione, ma non riesce a levarsela dalla testa. Spesso e volentieri, difatti, il suo istinto gli ha salvato la vita. Non gli sembra affatto una persona malvagia, ma non sta raccontando la verità. C’è qualcosa che nasconde e, quasi sicuramente, è legata a quelle due persone. Decide, però, di non fare altre domande e darsi delle risposte per conto suo, in futuro, senza coinvolgere Hana.

<< Non mi deve ringraziare ah ah! Ho fatto quello che chiunque altro avrebbe fatto. >>

Toshigo ribatte, rincarando la dose di complimenti e continuando ad alimentare i sospetti del ragazzo. I tre, poi, escono dall’ospedale. L’uomo alza il braccio libero per chiamare un taxi. Hana, stupita, lo cerca di fermare.

<< Professore! Non stia ad andare a casa da solo. La accompagniamo noi. >>

Lui, però, risponde con freddezza e senza lasciare possibilità di ripicca.

<< Non preoccuparti Hokkoku. Sto benissimo. Inoltre, abito molto lontano e il taxi è l’unico modo per raggiungere casa mia senz’auto. Ciao, alla prossima e grazie ancora. >>

L’uomo s’infila nell’auto, richiudendo la portiera dietro di sé. I due non hanno nemmeno avuto il tempo di ribattere. Si limitano a salutarlo con una mano. Hana è ancora scossa. Henka lo sa benissimo.

<< Hana. Forza, è meglio tornare a casa ora. >>

Lei si limita a fare un cenno d’assenso e prendere la strada per l’albergo, con la testa bassa. Lui la segue, in silenzio. Fanno buona parte del tragitto in quella situazione, con in mente solamente gli avvenimenti passati, quando Henka decide di provare a parlare.

<< Lasciando perdere quello che è successo oggi, vedere un tuo professore mi ha fatto venire in mente che devo iscrivermi ad una scuola. Ormai l’estate è finita e devo iscrivermi al mio ultimo anno di superiori. Domani, quando vai a scuola, posso seguirti? >>
Lei, sforzandosi di sorridere, gli risponde.

<< Ovviamente. Non avevo idea che avessi la mia età. Ti credevo più grande. >>

<< Ah si? >>

I due riescono a parlare per un po’ del più e del meno, dimenticandosi di quel triste giorno. I due camminano per le strade di Wan no Toshi, raggiungendo finalmente la loro meta finale quando ormai il sole sta tramontando. Su un tetto lì vicino, c’è il profilo di un uomo. Ha un’altezza media, ma la sua mole è spaventosa. Il sole lo illumina da davanti, impedendo di vederlo in volto. Da dietro si vede solo il suo profilo imponente. Ha una strana capigliatura che ricorda la criniera di un leone e guarda nel vuoto con le braccia incrociate. Come dal nulla, di fianco a lui, compare un’altra figura. E’ alto circa come lui, ma molto più esile e snello. Inoltre, i capelli sono molto più corti e lo fanno sembrare nettamente più piccolo. L’uomo non sembra affatto stupito e si gira verso il nuovo profilo come nulla fosse.

<< Ho sentito le ultime notizie. Parecchio interessanti non trovi? Sei preoccupato? >>

L’uomo esile attende qualche secondo prima di rispondere.

<< No. Dovrei esserlo? >>

L’uomo dalla criniera scoppia in una grassa risata che ha dello spettrale.

<< Ahr Ahr. Non lo so. Dipende tutto da te. Non è da tutti non essere preoccupati quando la propria famiglia si caccia in certi guai. >>

Con particolare freddezza, l’uomo snello risponde con una frecciata.

<< A quanto pare, nemmeno la sua sa stare lontana dai guai. >>

L’uomo leone rimane in silenzio per qualche secondo, lasciando trasparire lo stupore per quella risposta seccante. Evita, però, di proseguire quel discorso.

<< Ti ho detto mille volte di non darmi del lei. >>

L’uomo esile sembra divertito. Accenna un inchino e risponde un’ultima volta prima di scomparire di nuovo.

<< Temo sia impossibile. >>
 
Top
15 replies since 7/5/2009, 12:38   374 views
  Share